L’editoriale di Massimo Recalcati su Repubblica coglie, con rara profondità, il cuore del pontificato di Papa Francesco: il primato della misericordia come forma più alta di giustizia evangelica. In un tempo in cui la religione rischia spesso di irrigidirsi in ideologia o in identitarismo sterile, Francesco ha osato riportare la Chiesa al paradosso originario del Vangelo: Dio non si difende, si dona.

Recalcati mette a fuoco un elemento essenziale: la “rottura” non è stata contro la fede, ma contro una sua riduzione giuridica e autocelebrativa. Francesco ha smesso di presidiare mura e codici; ha scelto di sporcarsi le mani, di abitare le periferie, di respirare con chi è rimasto fuori dalle mappe del potere. Non ha diluito la verità: l’ha incarnata nell’umiltà di chi guarisce ferite e non le analizza da lontano.

L’immagine della Chiesa come ospedale da campo non è un vezzo letterario: è la nuova grammatica della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. Una grammatica che destabilizza quanti si rifugiano in una ortodossia astratta, incapace di toccare le piaghe reali dell’umanità.

Papa Francesco non ha negato la verità della fede: ha ricordato che questa verità non è una clava contro il peccatore, ma un abbraccio verso chi, come Pietro, Tommaso o Paolo, ha conosciuto la caduta, il dubbio, il tradimento. In Francesco la verità non si impone, si offre; non condanna, redime.

Anche il suo corpo malato, come sottolinea Recalcati, è diventato testimonianza: non esibizione di forza, ma segno di debolezza abitata dalla speranza. Un corpo ferito, ma ancora capace di tenere aperta la porta della Chiesa a chiunque bussi.

Il vero scandalo – ed è bene non dimenticarlo – è stato il tentativo di riportare il Vangelo all’essenziale in un mondo e in una Chiesa spesso più preoccupati della forma che della sostanza. Eppure, proprio questo è stato, ed è, l’unico possibile “ritorno alle origini”: la fede come passione per l’umano, come apertura all’alterità, come misericordia che precede ogni giudizio.

Francesco non è stato un Papa perfetto. Nessuno lo è. Ma ha interpretato, come pochi, l’anima pulsante del cristianesimo: “Misericordia io voglio, non sacrifici”. Il suo insegnamento rimane: la santità non è separatezza, ma prossimità; non è difesa di una fortezza, ma cammino verso l’altro.

Ora che il suo tempo terreno si è concluso, sarà compito della Chiesa non tradire questo seme, fragile ma potente, gettato con gesti, parole e lacrime in questi anni: un seme che chiede di continuare a crescere, non dietro mura di paura, ma nei campi aperti della speranza.