È un termine che si ritrova nella prima epistola di san Pietro, dove si legge che il cristiano deve essere sempre pronto a «dare conto della speranza che è in lui». Da questa esigenza nasce l’apologetica, con una missione ben precisa: “spiegare” o “difendere” la fede cristiana, giustificarla davanti a chi non la comprende o la confuta; è questo il segno distintivo di una disciplina teologica antica quanto la Chiesa e che si è rinnovata di fronte alle sfide di ogni epoca.

Ma certo un compito non desumibile dalla scienza e tantomeno dagli scienziati, anche se credenti. Semmai dai teologi.
Se è vero, infatti, che non è più il tempo di difendere la fede davanti alle autorità imperiali romane come nei primi tempi del cristianesimo, il «rendere conto» richiamato da san Pietro è ancora una scommessa.
Nella cultura europea, infatti, più che nel resto dell’Occidente, emergono obiezioni contro l’ipotesi dell’esistenza di Dio.
Si può fare dunque apologia alla maniera di Socrate o di Giustino, ma senza nessuna volontà di annacquare il messaggio cristiano né tantomeno di volerlo conciliare con la modernità senza considerare tutte le asperità di un dialogo-scontro come quello che si è verificato negli ultimi secoli.
Apologia che si fa testimonianza e che trova il proprio riferimento nella figura di Giobbe, il quale al contrario dei suoi amici che l’accusano in nome della giustificazione dell’opera di Dio, ribalta il discorso e chiama in causa Dio stesso.
Dio infatti non ha bisogno di avvocati difensori: «Nella Bibbia non ci sono apologie di Dio né da parte dei profeti, né da parte di Gesù o degli apostoli. E non è certamente un caso e privo di significato il fatto che durante il processo a Gesù nessuno lo abbia difeso, nessuno ne abbia pronunciato l’apologia, e che tanto meno Gesù abbia fatto l’apologia di se stesso».
La ricerca di una teologia naturale (teodicea) nasce infatti dalla riflessione sul problema del male e la sua conciliabilità con l’esistenza di un Dio che è buono.
A queste obiezioni si fecero corifei pensatori come Feuerbach e Marx, Comte e Freud, Nietzsche e Sartre. Jonas parlò della debolezza e del silenzio di Dio.
Il tema era pressante specialmente dopo la Shoà.
Quale risposta è stata fornita alle inquietudini dei contemporanei?
L’allontanamento dalla fede da parte dei contemporanei è dovuto, più che al problema del male, alle lacune più o meno vistose, ma comunque consistenti, nella predicazione e nella pastorale delle Chiese, nonché alla qualità della vita comunitaria e allo stile di vita dei chierici o dei fedeli “di sacrestia”.
Il discorso pubblico delle Chiese oggi è molto incentrato su questioni sociali, ambientali e migratorie.
Un passato era marginale anche per un peso storico e culturale di verso nella sensibilità dell’uomo comune.
Il rovescio della medaglia, però, è che queste emergenze hanno messo in secondo piano il discorso su Dio, fino al chiedersi quello che sia il motivo: solo imbarazzo, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, o non piuttosto una sostanziale carenza di fede?
Sono domande che sono emerse in tutta evidenza durante gli anni della pandemia e l’impreparazione di molti pastori, accanto a preti generosi e martiri, ad accompagnare chi veniva colpito pesantemente dal Covid e di pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte.