Ci sono luoghi e momenti in cui la storia si fa silenziosa, eppure decisiva. Il 26 aprile 2025, nella Basilica di San Pietro, mentre il mondo rendeva l’ultimo omaggio a Papa Francesco, un incontro discreto ma carico di significato avveniva lontano dai riflettori principali: Donald Trump e Volodymyr Zelensky, seduti uno di fronte all’altro, davanti al fonte battesimale. Un colloquio durato appena 15 minuti, eppure destinato a lasciare un’eco ben oltre le mura vaticane.
Per comprendere la portata simbolica e politica di questo incontro, occorre tornare indietro di poche settimane, al 28 febbraio 2025, quando Trump e Zelensky si erano affrontati nello Studio Ovale della Casa Bianca.
Quella volta, sotto gli occhi del mondo, Trump aveva accusato pubblicamente Zelensky di “giocare con la vita di milioni di persone” e di “scommettere con la Terza Guerra Mondiale”.
Il presidente ucraino, umiliato, aveva lasciato la Casa Bianca senza partecipare alla conferenza stampa congiunta prevista, mentre il vicepresidente americano J.D. Vance lo definiva “irrispettoso”.
In realtà, dietro la rudezza di quella scena si nascondeva una strategia più cinica: scaricare sull’Ucraina il peso di un conflitto divenuto scomodo per gli interessi geopolitici americani.
La narrativa della “ingratitudine” di Kyiv serviva a preparare l’opinione pubblica statunitense a un progressivo disimpegno, sollevando Washington da ogni futura responsabilità di fronte a un esito di guerra tutt’altro che favorevole.
Ed ecco che il 26 aprile, davanti al fonte battesimale di San Pietro, la scena cambia radicalmente.
Non un palcoscenico politico, non una platea di giornalisti, ma la sacralità silenziosa del luogo dove ogni uomo, al di là delle patrie e dei poteri, è semplicemente figlio.
È in questo contesto che Trump e Zelensky si sono incontrati di nuovo: con parole misurate, senza proclami, senza accuse.
Un confronto “molto produttivo”, secondo la Casa Bianca; un “buon incontro che potrebbe diventare storico”, secondo Zelensky.
La differenza è abissale.
Se nello Studio Ovale dominava la logica della forza e della colpa, in Vaticano emerge la possibilità di una diplomazia della riconciliazione.
Non si tratta ancora di accordi firmati, ma di un cambio di paradigma: il riconoscimento dell’altro non più come nemico, ma come interlocutore umano.
Non è casuale che tutto questo sia avvenuto nel contesto dei funerali di Papa Francesco.
Il Papa della misericordia, il Papa dei ponti, aveva consacrato il suo pontificato a rompere le logiche del sospetto e dell’esclusione.
La sua insistenza sul “costruire ponti, non muri” era diventata il manifesto di una diplomazia alternativa, fondata sulla dignità umana e non sull’equilibrio delle paure.
In questo senso, l’incontro Trump-Zelensky non è solo un gesto pragmatico: è l’eco geopolitica della testimonianza spirituale di Francesco.
Davanti alla sua tomba, due leader divisi da anni di guerra hanno scelto di parlarsi non più come antagonisti irriducibili, ma come uomini costretti a riconoscersi, almeno per un momento, nella comune fragilità della condizione umana.
Il contenuto concreto dei colloqui rimane ancora incerto.
Il piano discusso prevede il dispiegamento di un contingente di sicurezza europeo sostenuto dagli Stati Uniti, ma senza garanzie sulla restituzione dei territori occupati né sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO — due linee rosse per Zelensky.
La pace che si delinea rischia di essere una pace mutilata, frutto più di una stanchezza geopolitica che di una vera giustizia.
E tuttavia, nella diplomazia, anche il gesto più imperfetto può aprire vie prima impensabili.
Papa Francesco non lascia solo un vuoto spirituale.
Lascia un metodo e un monito: senza misericordia non ci sarà pace; senza riconcilcazione l’umanità continuerà a cadere nei suoi stessi abissi.
La geopolitica del futuro dovrà scegliere se insistere nella logica della forza o se accogliere la provocazione evangelica che Francesco ha incarnato fino all’ultimo.
Trump e Zelensky, davanti al fonte battesimale, hanno per un istante abbandonato i ruoli e toccato l’essenziale.
Se sapranno tradurre quel gesto in politica reale, la morte di Francesco avrà dato ancora una volta frutto.
Se invece torneranno alle dinamiche del sospetto e del dominio, allora il suo sacrificio resterà una sfida ancora inevasa.
Nel silenzio di San Pietro, quel giorno, non si è celebrato solo un funerale: si è aperta una possibilità.