Viviamo in un tempo che ha fatto del cambiamento la sua regola. Nulla sembra restare fermo: dalla tecnica all’identità, dalle istituzioni al linguaggio, tutto si trasforma. In filosofia, da Eraclito a Deleuze, l’essere stabile ha ceduto il passo al processo, alla differenza, al fluire. Il pensiero contemporaneo si è orientato sempre più verso una visione del reale come divenire, come mutamento incessante, al punto che talvolta sembra che ciò che è stabile sia sospetto, e ciò che cambia, legittimo per definizione.

In questo contesto, sorge una domanda non scontata per il pensiero cristiano: la filosofia del divenire può avere cittadinanza nel cristianesimo? Oppure è in contraddizione strutturale con la fede in un Dio eterno, in una verità rivelata una volta per sempre, in un destino già compiuto in Cristo?

Una risposta semplicistica rischierebbe di tradire la profondità della questione. Se da un lato il cristianesimo si fonda sulla Rivelazione, cioè su una verità trascendente che irrompe nella storia, dall’altro esso è, nella sua stessa essenza, religione dell’Incarnazione: Dio entra nel tempo, si fa carne, assume la condizione dell’uomo e della sua storia per redimerla dall’interno. Il cristianesimo non è l’adorazione di un eterno immobile: è la memoria di un evento e l’attesa di un compimento.

Lo aveva compreso profondamente Henri de Lubac, per il quale la grazia non cancella la storia, ma la porta al suo pieno significato. La vita cristiana, secondo lui, è «una progressione nella fede e nella speranza» – una fede che non è fissità, ma cammino nella verità. Così anche Joseph Ratzinger, ben prima del pontificato, insisteva sul fatto che la verità cristiana non è una dottrina rigida, ma una realtà vivente, personale, in grado di attraversare le culture senza perdere la sua identità. In Introduzione al cristianesimo scriveva che il credere è sempre «un’adesione personale» e «un atto in divenire», perché la verità è una Persona, non un’astrazione.

Nella modernità, Teilhard de Chardin ha cercato di conciliare il divenire dell’universo con la fede cristiana, concependo il mondo come un processo evolutivo in tensione verso un punto finale: Cristo “Punto Omega”, attrattore universale della materia e dello spirito. Per il gesuita francese, l’Incarnazione non interrompe la storia dell’universo, ma la porta a compimento: la fede si fa cosmologia, e la Redenzione diventa il senso ultimo del divenire stesso.

Una visione audace, che tuttavia resta legata a un principio di discernimento essenziale per la fede: il divenire non è valore in sé. Non ogni mutamento è progresso. Non ogni trasformazione è redenzione. Il cristianesimo può accogliere la filosofia del divenire solo se essa resta orientata, finalizzata, compresa come apertura al compimento, e non come perpetuo slittamento.

Lo aveva già affermato Paolo VI, con grande lucidità, in Evangelii nuntiandi (1975), quando parlava del “mutamento profondo e rapido” del mondo contemporaneo. Il Papa non condannava il cambiamento, ma ammoniva la Chiesa a non lasciarsi travolgere, ricordando che il Vangelo «non si identifica con nessuna cultura» ma ha in sé «la forza di purificarle e nobilitarle». In altre parole, la fede è chiamata a entrare nel tempo senza diventare schiava del tempo.

Ciò che distingue il cristianesimo da ogni forma di pensiero relativista o processuale è dunque questo: il divenire è reale, ma è orientato. È la strada che conduce a un compimento già svelato nella Risurrezione. È il tempo abitato dalla promessa. È lo spazio in cui la verità si manifesta, ma non si inventa; si accoglie, ma non si costruisce da zero. La Rivelazione non si evolve, ma si approfondisce, come scrive il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, dove si parla di una “crescita nella comprensione delle cose e delle parole trasmesse”.

In questa prospettiva, non solo è possibile pensare il cristianesimo nel linguaggio del divenire, ma è necessario. Perché la fede non è una torre d’avorio fuori dal tempo: è una chiamata a vivere il tempo come luogo teologico, come cammino di libertà e di grazia. È proprio in questo senso che possiamo dire che il divenire ha cittadinanza nel cristianesimo. Non come assoluto, ma come via verso l’eterno.

La filosofia del divenire, pur con i suoi limiti gnoseologici – cioè con la consapevolezza che la verità non si riduce al cambiamento – può allora essere assunta criticamente come strumento di lettura del reale. Ci aiuta a cogliere che la salvezza è un processo, che la santità è crescita, che l’incontro con Dio è trasformazione continua del cuore.

Alla fine, ciò che il pensiero cristiano afferma con forza è che la storia ha un senso. E che dentro il divenire, pur nel suo fluire, dimora l’Eterno.