Due millenni di storia cristiana hanno generato un florilegio di immagini e metafore per descrivere la Chiesa. Alcune si sono scolpite nella coscienza dei fedeli più di altre.

Per molti cattolici cresciuti all’ombra luminosa del Concilio Vaticano II, la visione della Chiesa come popolo pellegrino di Dio ha soppiantato la nostalgia per l’ecclesia militans medievale o la societas perfecta della post-Riforma.

È stato dunque naturale che l’immagine proposta da Papa Francesco, quella della Chiesa come ospedale da campo, trovasse in noi un’eco immediata.

Proposta in una celebre intervista del 2013, quella metafora ha ridato urgenza e freschezza all’impegno cattolico nella carità concreta: mense dei poveri, ministeri carcerari, accoglienza dei rifugiati.

Non più la priorità dell’ortodossia astratta, ma la misericordia incarnata nelle ferite reali del mondo.

Un pastore oltre le etichette

Francesco sapeva bene che la realtà della Chiesa non si poteva ridurre a schemi binari: liberali e conservatori, progressisti e tradizionalisti.

Queste categorie – utili forse in politica – risultavano inadeguate per comprendere il mistero vivo della Chiesa, che non è solo istituzione o dottrina, ma anche comunità abitata dal soffio imprevedibile dello Spirito Santo.

È stato chiamato riformatore rivoluzionario e, talvolta, accusato di seminare confusione.

Ha affrontato sfide gravose – dagli abusi alla questione della donna nella Chiesa, dai temi della sessualità al difficile cammino sinodale – lasciando domande che il futuro dovrà ancora affrontare.

Eppure, attraverso tutto ciò, il cuore della sua testimonianza resta chiaro: una Chiesa più povera, più aperta, più misericordiosa.

Il poliedro e la grazia

Se la Chiesa non è piramide né sfera, per Francesco è un poliedro: una figura geometrica complessa, dove molte facce diverse si incontrano senza perdere la loro individualità.

In questo modello, ogni cultura, ogni esperienza, ogni fedele trova spazio senza essere uniformato.

Un’immagine che non è solo ecclesiale, ma anche sociale: il poliedro è la società inclusiva sognata nella Evangelii Gaudium, capace di integrare le diversità senza distruggerle.

Come insegnava Francesco, il Vangelo si incarna in espressioni plurali, come una stessa melodia che si ricompone in infinite tonalità.

La sua lingua, poetica e ricca di immagini, si rifaceva alla grande letteratura che amava – Dante, Borges, Manzoni – ma soprattutto alla sapienza mistica che sa che parlare di Dio è sempre un tentativo balbettante, sempre consapevole della propria inadeguatezza.

“Sono un peccatore”

La radicalità di Francesco non stava nella perfezione, ma nella coscienza umile dei propri limiti.

“Sono un peccatore”, amava ripetere, chiedendo a tutti di pregare per lui.

In questo riconoscimento sta il cuore del suo pontificato: la Chiesa non è il riflesso perfetto dei nostri desideri o delle nostre paure, ma il luogo della grazia che ci sorprende, ci ferisce e ci guarisce.

È la grazia che ci allontana da noi stessi, che ci spinge all’incontro con l’altro, che ci rende strumenti imperfetti ma reali del Regno.

Un Regno oltre ogni sforzo

Papa Francesco amava ricordare che la storia della Chiesa – come la formazione dei meravigliosi poliedri naturali – richiede tempi lunghi, pazienza, e un’ospitalità creativa.

Nella preghiera attribuita a Mons. Ken Untener e citata più volte da Francesco, si riconosce che “il Regno di Dio è sempre al di là dei nostri sforzi e delle nostre visioni”.

Il suo pontificato, per quanto straordinario, è solo una faccia del grande poliedro della Chiesa, che continuerà a riflettere, sotto la luce di Cristo, le diversità riconciliate dei suoi membri.

Francesco ci ha insegnato a vedere con occhi più umili e più ampi.

A credere che la grazia non teme le ferite.

E che il futuro della Chiesa non sarà un ritorno nostalgico né una fuga in avanti, ma l’apertura coraggiosa a tutte le tonalità della santità.