Si è inaugurato a Roma, il 19 Maggio 2023, un congresso  sull’Humanae vitae organizzato dalla cattedra internazionale di bioetica Jérôme Lejeune.

Si tratta dell’enciclica di Paolo VI che negli anni Settanta fece scalpore perché esprimeva la posizione cattolica sulla contraccezione.

L’invenzione della pillola di Pincus rivoluzionò lo statuto sociale della donna e la vita della coppia.

Non fu necessariamente un reale progresso, sia per gli affetti che per gli effetti (collaterali) sulla salute.

Il patriarca di Venezia Albino Luciani, che successe proprio a papa Montini con il nome di Giovanni Paolo I, chiese al suo predecessore se ci fosse stata qualche deroga alla regola nella casistica della vita reale delle coppie.

L’approccio dell’ enciclica fu infatti considerato da alcuni troppo rigorista, riducendo la contraccezione a male assoluto.

Il cardinale Pietro Palazzini, illustre teologo morale, durante gli anni Novanta aprì il dibattito sulla cosiddetta “pillola bosniaca”, cioè la possibilità per le donne dei Balcani di difendersi dalle conseguenze degli stupri di guerra.

La contraccezione quindi non poteva essere vista né in modo univoco, né in modo equivoco.

Il principio del “doppio effetto”, per esempio, rendeva moralmente lecito l’uso della  pillola per scopo terapeutico nella regolazione delle disfunzioni mestruali.

Grazie a questo dibattito, tuttavia, la morale cristiana sviluppò la ricerca sulla lettura dell’ovulazione della donna in modo naturale.

I coniugi e ricercatori australiani Billings individuarono un metodo semplice che, sulla base della viscosità del muco cervicale, permetteva di calcolare con precisione i pochi giorni fecondi del ciclo ovulatorio.

La sua efficacia, riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità persino superiore ai mezzi contraccettivi meccanici, facilitava viceversa il concepimento per le coppie in cerca di fecondità.

Il principio assiologico dell’Humanae Vitae era l’inseparabilità dell’atto procreativo da quello fecondativo nell’unione sessuale dei coniugi.

Il presidente dell’Accademia pontificia per la vita, monsignor Vincenzo Paglia, ha recentemente dichiarato che “Il riconoscimento del legame inseparabile tra amore coniugale e procreazione in Humanae vitae non significa che ogni relazione coniugale debba necessariamente essere feconda”.
Paolo VI riconosce che la procreazione deve essere responsabile e designa i metodi naturali come il mezzo per realizzare questa responsabilità”.

Diversamente, nel progetto di Dio sull’uomo, non si spiegherebbero i maggiori giorni di sterilità naturale delle donna, rispetto a quelli di fecondità.

L’attesa, la disciplina, il rispetto dell’altro, la paternità responsabile, sono l’esercizio di una libertà autentica e di un’intesa matura e progettuale con il partner.

Il mainstream mediatico dell’epoca postsessantottina non rese un servizio onesto e costruttivo alla presentazione del documento magisteriale di Paolo VI, liquidato a camera da letto da sagrestia.

L’Humanae Vitae, invece, presenta ancora tutta la sua attualità perché già ribadiva una sana antropologia duale (anima e corpo) che può aprire oggi orizzonti di riflessione validi per il transumanesimo e la teoria del gender.

Il piacere venereo e la riproduzione umana, infatti, devono essere sempre aderenti alla dignità della vita nascente, al rispetto del materiale biologico umano e al linguaggio dell’amore nella relazione.

Anche il Magistero successivo ha ribadito che i figli sono un dono, non un dovuto a tutti i costi.

La sessualità, infine, non è il risultato di una scelta personale, di autodeterminazione psicologica o di accondiscendenza culturale.

La vera sfida odierna è il rispetto della natura e questo è impossibile senza un’ecologia sull’uomo che parta dal suo modo di amare e di relazionarsi intimamente.