DOSSIER: Quando una nave cargo israeliana attracca in un porto europeo per caricare componenti destinati all’industria bellica di Tel Aviv, non si tratta solo di logistica commerciale. Si tratta di responsabilità politica e morale. E quando quei componenti sono impiegati in armi utilizzate nei bombardamenti di Gaza, come nel caso del fucile mitragliatore Negev 5, usato durante il cosiddetto “massacro della farina” del 29 febbraio 2024, la questione si fa drammaticamente concreta.

Le recenti inchieste condotte da Disclose e The Ditch hanno portato alla luce una verità scomoda: diversi Paesi europei continuano a fornire, direttamente o indirettamente, armamenti e tecnologie militari a Israele, pur conoscendo gli effetti devastanti del loro impiego sui civili palestinesi. E tra i fornitori compaiono attori di primo piano della scena internazionale: Stati Uniti, Francia, Germania, Italia.

Gli alleati che non fanno domande

Gli Stati Uniti rappresentano storicamente il principale sostenitore militare di Israele. La cooperazione tra Washington e Tel Aviv non si limita alla vendita di armamenti: si estende alla ricerca congiunta, allo sviluppo tecnologico, alla formazione. In questo contesto, il margine di condizionamento da parte degli Stati Uniti è notevole. Ma quel margine non viene esercitato, nemmeno quando a Gaza si registrano violazioni evidenti del diritto internazionale umanitario.

Gli Stati Uniti, come noto, sono il principale sostenitore militare di Israele. Ogni anno il Congresso approva finanziamenti diretti (oltre 3,8 miliardi di dollari l’anno) sotto forma di Foreign Military Financing. Questa cooperazione include carri armati, sistemi radar, droni e munizionamento. La stragrande maggioranza delle armi impiegate nei teatri operativi a Gaza proviene da aziende statunitensi come Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics.

In Germania si assiste all’eccezione etica che conferma la regola. Per ragioni storiche e strategiche, mantiene una linea di sostegno continuo, fornendo mezzi e componenti ad alto valore strategico. Una scelta che, pur comprendendo la memoria del passato, rischia di diventare complicità nel presente.

La Germania giustifica infatti le esportazioni verso Israele anche in nome della “responsabilità storica” post-Olocausto. Eppure, tra il 2019 e il 2023, Berlino ha venduto a Tel Aviv sottomarini, radar e siluri. Alcune di queste forniture, come evidenziato da esperti di diritto umanitario, potrebbero essere utilizzate in operazioni che hanno avuto conseguenze dirette sui civili palestinesi. Berlino ha rifiutato finora di sospendere le licenze d’esportazione.

La Francia, dal canto suo, alterna prese di posizione critiche a una continuità commerciale difficilmente giustificabile. Droni, pezzi di ricambio, tecnologie: l’industria militare francese continua ad alimentare i magazzini israeliani, mentre il governo tace o si rifugia dietro le clausole contrattuali.

Come rivelato da Disclose e Mediapart, la Francia ha esportato componenti elettronici per droni, pezzi di ricambio per fucili mitragliatori e software di controllo. Il caso Eurolinks – con carichi diretti alla Israel Military Industries via Marsiglia – è emblematico: Parigi dichiara un “sostegno condizionato” a Israele, ma non interrompe il flusso di componenti letali. Il contrasto con la decisione della Spagna, che ha bloccato le esportazioni di armi, è evidente.

Il caso Italia e la lezione dei portuali

L’Italia ha autorizzato esportazioni minori in valore, ma non meno rilevanti in termini simbolici e politici. La società RWM Italia (oggi RWM Italia S.p.A., parte del gruppo tedesco Rheinmetall) è stata oggetto di forti proteste negli anni per le sue esportazioni verso scenari di guerra, compreso il Medio Oriente. 

L’Italia ha avuto, e ha ancora, un ruolo nella catena logistica dell’industria bellica globale. Anche se in misura inferiore, il nostro Paese consente licenze di esportazione che raggiungono Israele o passano da Paesi terzi in triangolazioni opache. Tuttavia, non sono mancati esempi virtuosi. In anni recenti, i portuali di Genova si sono opposti al transito di armi dirette verso la guerra in Yemen. Oggi, quelle istanze tornano con urgenza. E infatti , i portuali di Fos-sur-Mer in Francia hanno rilanciato con forza questa forma di obiezione civile, rifiutandosi di caricare materiale destinato a un esercito coinvolto in gravi atti contro la popolazione di Gaza.

Le parole e il peso della legge

In base al diritto internazionale, e in particolare alla Convenzione sul Genocidio del 1948, anche “l’incitamento” e il “contributo materiale” a un genocidio possono configurare responsabilità giuridica. Non si tratta di retorica: se le armi europee finiscono in scenari dove si verificano stragi, crimini di guerra e violazioni sistematiche dei diritti umani, i governi che le autorizzano non possono lavarsene le mani.

Amnesty International e numerose organizzazioni per i diritti umani chiedono da tempo un embargo immediato sulle forniture militari a Israele, fino a che non sarà garantito il rispetto pieno del diritto umanitario. È una richiesta minima, fondata sulla prudenza, sull’etica e sul diritto.

La pace non si costruisce con il silenzio

Ogni container che parte da un porto europeo, ogni tecnologia venduta senza verifiche, ogni licenza concessa senza domande, rappresenta un passo in più verso una normalizzazione del massacro. Ma la normalità non può comprendere la complicità. Ed è proprio in questo vuoto istituzionale che si fa spazio la disobbedienza civile, il coraggio dei lavoratori portuali, la voce delle comunità solidali.

È un tempo in cui l’opinione pubblica deve tornare a contare. Dove i media liberi, i sindacati, le chiese, i cittadini, devono alzare la voce là dove i governi tacciono. Perché non si può restare neutrali davanti a un crimine. E non si può difendere la dignità con le armi puntate contro gli inermi.

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Nota di redazione:

Ai sensi dell’art. 21 della Costituzione italiana e della Legge 69/1963, la libertà di informazione è un diritto tutelato. Questo articolo è redatto nel rispetto dei principi di responsabilità e interesse pubblico, e si colloca nel quadro della denuncia civile di possibili violazioni dei diritti umani.