I fatti

A Capaci, il 23 maggio 1983, 500 Kg di tritolo facevano saltare in aria un intero pezzo di autostrada.

Un “attentatone” ordito da Cosa Nostra per eliminare il giudice Giovanni Falcone.

Il procuratore generale dell’antimafia perse la vita insieme alla moglie Francesca Morvillo e ad altri tre agenti della sua scorta: Antonio Montanari, Vito Schifani e Rocco Dicillo.

Falcone, che oggi ricordiamo come un eroe, è stato bastonato professionalmente al punto di costringerlo a lasciare Palermo e approdare a Roma al Ministero della Giustizia.

Celebre la sua frase: “la mafia è una vicenda umana come tutte le altre, come ogni vicenda umana ha un inizio e una fine”.

Dopo la sua morte, alla quale seguì due mesi dopo quella del collega Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio a Palermo, qualcosa cambiò nell’opinione pubblica.
La cittadinanza, non solo a Palermo, riempì finestre e balconi di lenzuola bianche, simbolo di trasparenza. “Basta con la mafia, vogliamo legalità, vogliamo giustizia!”

Questi gli slogan che numerosi giovani scandivano nei cortei cittadini in un tempo nel quale solo nominare la parola mafia, era tabù.

Fino a quel momento c’era stata una fase nella società siciliana nella quale si diceva: “La mafia non esiste”.

Era il mantra ripetuto da personaggi, anche eccellentissimi.

Cardinali, procuratori generali…  negavano l’esistenza della mafia e chi ne parlava era un provocatore. 

Le cose cambiano con la legge Rognoni – La Torre. 

Quando viene introdotto nel nostro Codice penale l’articolo 416 bis, l’associazione mafiosa è punita, quindi la mafia esiste. 

L’attivarsi del pool di Falcone e Borsellino creato prima da Rocco Chinnici e poi perfezionato da Nino Caponnetto ha un metodo di lavoro rivoluzionario. È fondato sulla specializzazione e sulla centralizzazione.

La mafia reagisce con una strage tesa a punire gli avversari che l’avevano smascherata rendendola un gigante coi piedi d’argilla. 

Chi e perché fece uccidere Falcone?

Le inchieste di Giovanni Falcone, non si fermavano alla messa a nudo dell’apparato militare e piramidale di cosa Nostra.

Il giudice era riuscito a risalire a una serie di protezioni e connivenze con la mafia, da parte dei più alti apparati dello Stato.

Falcone dava fastidio e arriviamo quindi al 23 maggio del 1992, giorno del suo attentato.

Perché Giovanni Falcone aveva portato con sé, a Roma, alcuni atti dell’inchiesta su Gladio? La stessa organizzazione della quale, ancora prima che ne diventasse politicamente nota l’esistenza, qualcuno gli aveva già parlato a Palermo, mettendo a verbale dati inediti e conoscenze importanti? Sono tutti interrogativi che vanno a battere sempre sullo stesso tasto: fu solo Cosa Nostra a mettere a segno la strage di Capaci? 

Perché il telecomando fu consegnato a Giovanni Brusca proprio da Pietro Rampulla, un esponente storico della destra estrema? E perché questo Rampulla, che doveva partecipare materialmente il 23 maggio all’attentato, invece, adducendo una scusa, rimase a casa sua? Qual è la vera origine, o meglio il vero significato, del foglietto repertato dalla scientifica sul cratere di Capaci, poco dopo la strage, che conteneva annotazioni su numeri telefonici riconducibili al Sisde di Roma e al capocentro del Sisde di Palermo? In sostanza; chi sono e che ruolo hanno avuto nelle stragi le «menti raffinatissime» già individuate da Falcone come i veri ispiratori e autori dell’attentato da lui subito all’Addaura, nel giugno del 1989? Forse, se trovassimo le risposte a questi interrogativi, scopriremmo chi, e perché, si preoccupò di fare sparire i file informatici di Giovanni Falcone.

Stato-Mafia, la genesi

Nei libri di storia è consacrata la verità che le autorità americane decisero di rivolgersi a Cosa Nostra in vista dello sbarco alleato del 1943 in Sicilia.

È il primo esempio eclatante di una Trattativa fra uno Stato e la mafia. Perché escludere che quella stagione abbia continuato a tramandarsi sino ai nostri giorni? Non dobbiamo affatto escluderlo. Anzi.

È proprio dalla trattativa fra le forze alleate e Cosa Nostra americana e siciliana che cresce quel germe avvelenato di dialogo occulto fra poteri che dovrebbero combattersi.

Un cancro che periodicamente esplode nella sua evidenza. 

Dal patto fra Cosa Nostra e la corrente andreottiana nella Democrazia cristiana alla sua rottura culminata nelle esecuzioni di Salvo Lima e di Ignazio Salvo, rais delle esattorie in Sicilia. Dal coinvolgimento nel progetto del golpe Borghese alla mediazione della camorra per liberare il democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse. Dalla saldatura micidiale fra interessi criminali e politici per bloccare l’azione riformatrice del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, alla sua uccisione. 

La grande favola serviva anche a nascondere agli occhi dell’opinione pubblica la presenza dietro le stragi, e nelle stragi, di soggetti che con la mafia, tradizionalmente intesa, non avrebbero dovuto avere a che vedere. 

Il 3 settembre 1982, per esempio, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ad appena cento giorni dal suo insediamento come prefetto antimafia, viene assassinato a Palermo, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, Domenico Russo. In quella stessa notte, il suo diario, nel quale i familiari sapevano che appuntava tutti i suoi spunti segreti di indagine, scompare dalla cassaforte della sua residenza privata, a Villa Pajno. E non venne mai più ritrovato. Non era fattibile che chi aveva appena compiuto la strage potesse essere entrato indisturbato in una residenza istituzionale e guardata a vista. E non è forse vero che Cosa Nostra ha sempre sostenuto di aver commesso quel «delitto eccellente» in conto terzi?

La frase celebre di Totò Riina, “Dobbiamo scatenare la guerra per poi fare la pace”, riassume tutto. 

Così Riina continuava a fare politica, consapevole che, senza il rapporto con la politica, Cosa Nostra sarebbe scomparsa. 

Iniziò così il grande ricatto. Uccidere per trattare. Spazzare via i traditori, auspicando che altri referenti si facessero avanti. Esportare fuori dalla Sicilia la strategia del terrore. Seminare panico nel paese. Instaurare un patto politico mafioso con soggetti politici nuovi di zecca. Una strategia complessiva che venne attuata fra il febbraio del 1992 e il 1994. 

Il primo atto di guerra fu l’uccisione di Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Le istituzioni capirono l’antifona? L’omicidio fu immediatamente percepito per il suo vero significato. Un attacco al governo nazionale e al suo premier Giulio Andreotti. L’inizio di una mattanza che avrebbe coinvolto altri politici siciliani. 

L’indagine del giudice Nino Di Matteo, sulla Trattativa, lo dimostra con numerosi dati di fatto.

Fin dal 1974, grazie alla mediazione di Marcello Dell’Utri, Cosa Nostra aveva stipulato un vero e proprio patto con Silvio Berlusconi, che allora era un semplice imprenditore. 

Cosa Nostra proteggeva Berlusconi, i suoi familiari e le sue attività economiche. 

Berlusconi si sdebitava versando periodicamente centinaia di milioni nelle casse dell’organizzazione criminale. 

Quei patti, vicendevolmente mantenuti almeno sino al 1992, sono consacrati nella sentenza di Cassazione che ha reso definitiva la condanna di Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. 

Quindi, quando nasce Forza Italia, Cosa Nostra non è alle prese con un contenitore politico nuovo di zecca. 

Cosa Nostra aveva già sperimentato la «serietà» e l’affidabilità dell’imprenditore di Arcore e di Dell’Utri. 

Quando Berlusconi, consigliato da Dell’Utri, si decide finalmente a scendere in politica, Cosa Nostra non ha più dubbi. 

Erano loro i referenti che Riina aveva cercato sin da quando aveva deciso di uccidere Lima. Per questo, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1994, sia l’ala stragista di Cosa Nostra, sia l’ala moderata, facendo affidamento sulle assicurazioni e sulle garanzie ricevute da Dell’Utri, appoggiarono come un sol uomo Forza Italia.

 Il successo di quel partito fu clamoroso e Silvio Berlusconi divenne nel maggio del 1994 il presidente del Consiglio. 

Non fu un gran bello scenario quello in cui nacque la Seconda Repubblica. 

Ricatti, patti oscuri, stragi e denaro. 

C’è anche tutto questo nel contesto che apre la strada alla Seconda Repubblica. 

E Cosa Nostra non poteva mancare quell’appuntamento per lei ormai di vitale importanza. Per questo ribadì subito la sua legge, il suo «comando io». 

Lo fece presentando al presidente del Consiglio Berlusconi quelle stesse richieste che erano state avanzate ai precedenti governi. Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando a Capaci, e Leoluca Bagarella inviarono Vittorio Mangano, il mafioso palermitano per anni «stalliere» ad Arcore, da Dell’Utri per ricordare a Berlusconi ciò che si attendevano oltre all’ammorbidimento del carcere duro.

Lo fecero ricordando che, se non avessero ottenuto risposte, non avrebbero avuto problemi a ricominciare con le bombe. 

Allo Stadio Olimpico di Roma, la bomba che avrebbe dovuto uccidere nel gennaio del 1994 centinaia di carabinieri, non era esplosa per puro caso. 

Ma Cosa Nostra, insediatosi Berlusconi al governo, poteva tornare ai progetti originari.

Il processo ha dimostrato che la minaccia arrivò al destinatario.

Dell’Utri ne fu il tramite. Berlusconi seppe ma non denunciò, e anzi, con lo stesso ambasciatore, riferì che si stava muovendo per fare approvare leggi che, insieme agli imputati di Tangentopoli, avrebbero favorito anche i mafiosi. 

Alcune iniziative, fra tutte un decreto legge di riforma della normativa sulla custodia cautelare in carcere, furono adottate tempestivamente ma non andarono in porto per la clamorosa iniziativa dei giudici del pool milanese di Mani Pulite, che minacciarono di dimettersi; per la tardiva opposizione del ministro dell’Interno Roberto Maroni, che quel decreto invece lo aveva «inconsapevolmente» firmato; per le successive vicende politiche culminate nel giro di pochi mesi nella caduta del governo Berlusconi. 

Una cosa è certa ed è venuta fuori grazie a questo processo: Cosa Nostra era stata in grado, nel tempo, di coltivare i suoi rapporti prima con l’imprenditore Berlusconi e poi con il Berlusconi fondatore di Forza Italia e, successivamente, esponente di vertice delle istituzioni.

Cortina fumogena

Detrattori e depistatori ce ne sono stati purtroppo tanti. 

Prendiamo a caso. 

Cosa pensare oggi, alla luce di questa sentenza di primo grado del processo di Palermo, di giudizi come quelli manifestati dall’opinionista Giuliano Ferrara che disse senza mezzi termini: «La Trattativa Stato-Mafia è una minchiata, non c’è niente di niente… Una spaventosa messinscena il cui obbiettivo è mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi…»? O di quelli del giornalista Enrico Deaglio: «Questa inchiesta non sta in piedi, è grottesca»? O di quelli del giornalista Giuseppe Sottile: «Il relitto della Trattativa. Mori, Mannino, Ciancimino, altre patacche… un processo che sta definitivamente affogando»? O di quelli del giornalista Giorgio Mulè, che alla prima udienza del processo sentenziò: «A Palermo parte “la Norimberga de’ noantri”»? E, per continuare con un altro giornalista, Andrea Marcenaro: «La trattativa Stato-Mafia è una bufala, non sta in piedi, è un’inchiesta da portineria politica… non ha nessuna possibilità di arrivare a condanna»?

 Infine, persino Eugenio Scalfari non esitò a salire in cattedra: «Quando è in corso una guerra, la Trattativa fra le parti è pressoché inevitabile per evitare i danni… quale è dunque il reato che si cerca?…».

La sentenza

In effetti, Il 27 aprile 2023 con la sentenza in ultimo grado presso la Cassazione nel processo sulla trattativa Stato-Mafiala Corte di Cassazione ha assolto gli ex ufficiali del ROS Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello Dell’Utri dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato per “non aver commesso il fatto“, mentre l’accusa nei confronti di Leoluca Bagarella ed Antonino Cinà viene riderubricata a “tentata minaccia a Corpo politico dello Stato” e dichiarata prescritta.

In parole povere, si riconosce l’esistenza del “fatto”, ma il fatto – che c’è – non è reato.

Magistrati, poliziotti, preti e innocenti cittadini, anche bambini, saltavano in aria, ma lo Stato “lecitamente” poteva negoziare con gli stessi autori dei crimini.

Se dobbiamo fare una fotografia della mafia oggi, si potrebbe evocare l’immagine della piovra, ma si potrebbe anche utilizzare l’immagine del camaleonte. 

La mafia da sempre ha la straordinaria abilità di cambiare pelle.

Per adattarsi alle circostanze di tempo e di luogo in cui volta per volta deve operare. 

La mafia oggi è tutta un’altra cosa.

Sempre nel giorno del trentunesimo anniversario della strage di Capaci, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto:

“Magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno demolito la presunzione mafiosa di un ordine parallelo, svelando ciò che la mafia è nella realtà: un cancro per la comunità civile, un’organizzazione di criminali per nulla invincibile, priva di qualunque onore e dignità (…) L’azione di contrasto alle mafie va continuata con impegno e sempre maggiore determinazione – ha sottolineato il capo dello Stato -. Un insegnamento di Giovanni Falcone resta sempre con noi: la mafia può essere battuta ed è destinata a finire”.