C’era una volta “sua emittenza” al quale l’Italia si è consegnata per oltre un ventennio.

Il Paese era indignato da Tangentopoli e la figura di Silvio Berlusconi, tycoon brianzolo, rappresentava rottura col passato e promettente avvio per la nascita della Seconda Repubblica.

L’influenza culturale del suo gruppo editoriale è stata notevole per più di una generazione.

Il case study Mediaset rappresentò una rottura con un’Italia ancora morigerata che venne iniziata alla TV spazzatura.

Le cifre Auditel erano oltremodo gonfiate per permettere al Gruppo di famiglia più introiti pubblicitari.

Il potere poteva permetterselo.

L’espediente era necessario perché allora, come oggi, “mamma RAI” è riuscita comunque ad assicurarsi una fidelizzazione ineguagliata di spettatori.

In questi ultimi anni la rete pubblica ha molto investito in produzione cinematografica collocando l’Italia in testa ai paesi europei produttori di fiction. 

Rimane ancora un gap notevole con la BBC inglese quanto a produzione di documentari.

Se un Gabriele Muccino scrive e propone storie di un’Italia che non c’è, le serie del prete-detective “Don Matteo” continuano a spopolare da ben tredici stagioni.

I Fratelli d’Italia non potevano omettere l’appropriazione del servizio pubblico televisivo e dopo alcuni mesi al governo hanno liberato la RAI per mettere i loro uomini.

L’amministratore delegato RAI Carlo Fuortes ha infatti dato le dimissioni per essere sostituito da un tandem composto da Roberto Sergio e Giampaolo Rossi. 

Il primo, che ha diretto la radio pubblica dal 2015 al 2019, è storicamente piuttosto affiliato alla democrazia cristiana ma si è avvicinato alla destra negli ultimi anni. 

Il secondo è molto vicino a Giorgia Meloni. 

Dirigente della RAI e consigliere della strategia audiovisiva del partito Fratelli d’Italia, negli ultimi anni ha moltiplicato le prese di posizione complottista, pro-Putin e antivax. 

Non nasconde le sue intenzioni: porre fine alla “egemonia culturale della sinistra”.

Se in Italia il governo ha sempre avuto un controllo importante sull’audiovisivo pubblico, è il progetto di riscrivere una nuova narrazione nazionale che preoccupa. 

Bisogna tuttavia riconoscere come dal dagli anni Settanta in poi, avesse prevalso in Italia un’egemonia culturale della Sinistra, essendo la Destra guardata ancora con la diffidenza del post-fascismo e la Democrazia Cristiana cerchiobottista troppo preoccupata a stare al governo.

La strategia è di avere le mani sui programmi di intrattenimento, sulla scelta dei presentatori, ma anche sulla produzione di fiction al fine di trasmettere i valori cari alla destra conservatrice: famiglia, tradizione…

I noti presentatori Fabio Fazio e Luciana Littizzetto stanno infatti lasciando la RAI e il programma “Che tempo che fa” non senza una una caduta di stile.

Se una controtendenza culturale può anche far bene all’Italia, ogni forma di revisionismo storico deve prescindere da ideologia ed essere aderente al principio dell’onestà intellettuale.

La manovra non si ferma all’audiovisivo pubblico ma riguarda tutte le istituzioni culturali. 

A Roma, il giornalista di destra, vicino a Giorgia Meloni, Alessandro Giuli è stato nominato a capo del Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo (Fondazione MAXXI) quest’inverno. 

A Napoli, Beatrice Venezi, meloniana della prima ora, potrebbe presto prendere il vertice del teatro San Carlo.
L’arte benché possa essere strumentalizzata dalla politica ha una capacità di autonomia per la sua capacità innata di autotrascendenza.

Quanto alle nomine del servizio televisivo pubblico, l’ingaggio triennale e l’instabilità dei governi italiani creano quell’alternanza da carosello sulla linea editoriale.

Qualunque trasformazione culturale richiede dei processi, dei tempi di gestazione, in una dinamica maieutica e non solo imposta dall’alto.

Se la proposta della Destra sarà in grado di rassodare i terreni incolti della cultura italiana non potrà che far bene al Paese.

Se viceversa si tratta solo di un cambio di potere con le stesse dinamiche viziose e clientelari avremo perso l’ennesima possibilità di quello sviluppo che si costruisce soprattutto con la cultura e la sua alleanza con i media e l’arte.