Il 2 luglio non segna solo l’ingresso di Vittorio Emanuele II a Roma nel 1871, ma anche un altro evento, ben più recente e meno ricordato, che riguarda da vicino il cuore e la coscienza della nostra Repubblica: la battaglia al Checkpoint Pasta, avvenuta il 2 luglio 1993 a Mogadiscio, in Somalia. Un episodio drammatico della missione di pace “Ibis II”, in cui tre militari italiani persero la vita e altri ventidue rimasero feriti, lasciati soli in un’imboscata organizzata con precisione micidiale. Ma quella battaglia – come dimostrarono inchieste successive, morte di giornalisti compresa – fu solo la punta di un iceberg ben più grande: quello di interessi opachitraffici internazionaliarmiscorie tossicheambiguità geopolitiche e silenzi colpevoli.

Da ex colonia a teatro della guerra globale

La Somalia degli anni ’90 è un Paese allo sbando. Dopo la caduta del regime di Siad Barre, il collasso dello Stato centrale ha lasciato spazio a una lotta fratricida tra clan e signori della guerra. In questo vuoto di potere, le Nazioni Unite inviano una forza multinazionale per garantire aiuti umanitari e ristabilire l’ordine. L’Italia, storicamente legata alla Somalia da un passato coloniale mai veramente elaborato, partecipa con uomini, mezzi, entusiasmo.

Il comando del contingente italiano è affidato al generale Bruno Loi, ufficiale lucido, diplomatico e rispettato, che tenta la via del dialogo con i leader locali, a cominciare da Mohamed Farah Aidid. Tuttavia, questa strategia irrita il comando americano, che punta su un’impostazione più aggressiva e non apprezza la maggiore empatia tra italiani e popolazione somala.

L’imboscata del 2 luglio: una ferita aperta

Quel 2 luglio, due plotoni italiani si muovono verso il Checkpoint Pasta, nei pressi di un vecchio pastificio. Ma è una trappola: centinaia di miliziani somali – già appostati con armi automatiche e RPG – li circondano e aprono il fuoco. Inizia una battaglia cruenta, casa per casa, con gli italiani accerchiati e sotto tiro per ore. Manca un coordinamento internazionale, e gli americani presenti a Mogadiscio si rifiutano di intervenire per dare supporto ai nostri soldati.

In quelle ore drammatiche si distingue il coraggio delle truppe italiane, in particolare del 183° Reggimento paracadutisti Nembo e dei reparti del Col Moschin. A dare un minimo di superiorità tattica è un elicottero Mangusta dell’AVES, che interviene sparando un razzo contro un VM dell’esercito italiano sottratto dai miliziani, impedendone l’uso contro i nostri. È una delle prime azioni di fuoco reali del Mangusta, che evita un bilancio ancora più tragico.

Alla fine della giornata si contano 3 militari italiani morti – Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro – e 22 feriti. Ma le conseguenze sono anche politiche: il generale Loi viene attaccato in patria e all’estero, e solo anni dopo sarà completamente riabilitato, vittima di una macchina del fango che cercava capri espiatori.

Dietro la missione: traffici, silenzi e giornalisti assassinati

Quel che si scoprì dopo – anche grazie alle inchieste giornalistiche e alle indagini sui dossier coperti – è che la Somalia non era solo un terreno di missione umanitaria, ma un crocevia di traffici illecitiarmi, rifiuti tossici, scorie radioattivesmaltite illegalmente nei mari africani, in cambio di favori politici o risorse.

Proprio in questo contesto si colloca il brutale omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994. I due giornalisti stavano scavando su questi traffici e sulla connivenza di interessi italiani e locali. Furono uccisi in pieno giorno, a Mogadiscio, in un’esecuzione che ancora oggi – nonostante commissioni parlamentari e processi – non ha trovato giustizia né verità.

Quando la geopolitica tradisce la lealtà

Il 2 luglio 1993 è il simbolo di un’Italia leale con i suoi alleati, ma lasciata sola. Una missione nata per la pace si trasformò in guerra urbana. Un esercito mandato a portare aiuti fu risucchiato in logiche opache. E un Paese, il nostro, che non seppe difendere abbastanza i suoi figli né onorare la memoria dei giornalisti caduti.

La mancanza di supporto americano in quel giorno critico dice molto: su come l’Italia veniva vista, sulle fratture interne alla coalizione ONU, ma anche sulla scarsa consapevolezza geopolitica della nostra diplomazia di allora. La lezione non fu compresa, e l’Italia continuò per anni a essere presente nei teatri caldi del mondo senza una vera politica estera autonoma.

Un anniversario da non dimenticare

Oggi, mentre l’Italia è nuovamente coinvolta nel Mediterraneo allargato, tra Libia, Mar Rosso e Sahel, ricordare la battaglia del Checkpoint Pasta è più che un dovere: è un atto di verità. Perché senza memoria, si ripetono gli errori. Perché la dignità dei soldati mandati in missione non può essere spesa sull’altare degli equilibri politici. E perché quei tre nomi – Millevoi, Paolicchi, Baccaro – devono essere scolpiti nel cuore di ogni cittadino italiano.

Il 2 luglio non è solo la celebrazione dell’Italia unita con Roma capitale. È anche il giorno in cui l’Italia pagò in vite umane il prezzo della solitudine internazionale, dell’ambiguità di certe alleanze, e della debolezza di una politica estera senza voce.

Oggi più che mai, occorre ricordare. E dire finalmente, con forza: mai più silenzi sulle missioni italiane. Mai più verità negate. Mai più soldati lasciati soli.