Continua il cambio ai vertici del consiglio di amministrazione delle partecipate dello Stato e delle industrie strategiche per il Paese. Sorprende la continuità di strategia economico-industriale anche con il pensiero di un sedicente cattolicesimo identitarista per l’Italia, ma di origine americana sovranista.

È apparso il 6 giugno 2023 sul sito “Pro Italia Cristiana” l’articolo dal titolo: Eolico e fotovoltaico non salveranno il mondo.

Premesso che la fede cristiana indica in Cristo l’unico Salvatore, intriga la natura del sito sulla compagine dei contributori e la proprietà…

La mission dichiarata è la difesa e la promozione della cultura italiana e della sua tradizione cattolica, contro il progressismo, il multiculturalismo e l’ecologismo antiumano.

Non viene giustificato con precisione epistemologica e culturale cosa significhi questo, poiché si tratta di temi già trattati nel Magistero ecclesiale.

Sorprende poi che i contributori dei post siano quasi esclusivamente americani.

Qualora il multiculturalismo fosse un qualcosa di dannoso, è da premettere che la cultura nordamericana, non è identificabile con quella italiana.

Nel disclaimer si parla di: “attacco senza sosta alla “nostra” identità di italiani; minaccia dell’immigrazione incontrollata e mal gestita e dell’ideologia multiculturale promossa dalla sinistra; pericolo del radicalismo islamico; ecologismo radicale e della gestione del cambiamento climatico.

Giovanni Falcone diceva che per lottare contro le mafie occorre seguire i flussi di denaro.

Sulla pagina per le donazioni il sito riconduce all’organizzazione “Luci dell’Est”.

È un malcelato gioco di matrioske russe ispirato all’internazionale restaurazionista di destra TFP del controverso Plino Correia de Oliveira.

È possibile un nesso tra la delegittimazione delle energie rinnovabili dell’articolo con la riesumazione di Paolo Scaroni alla guida del consiglio di amministrazione dell’Enel.

Paolo Scaroni è da tempo in pensione a 76 anni, ha un debole per il petrolio, il gas e la Russia di Vladimir Putin.

Altrove sarebbero chiari i criteri di esclusione.

Nell’Italia “cristiana” gli viene data una spinta di carriera in età avanzata.

Scaroni è esattamente l’uomo giusto per l’attuale governo ultra-conservatore.

Per gli altri asset strategici del Paese già si era già provveduto nei mesi scorsi a ricalibrare le nomine: RAI, ENI, LEONARDO, TERNA…

Il nuovo capo del consiglio di amministrazione ha, dopo tutto, una conoscenza del settore, anche se obsoleta: dal 2002 al 2005 è stato amministratore delegato di Enel, poi fino al 2014 CEO del concorrente ENI.

Sembra comunque caduto fuori dal tempo.

E non solo perché ha lasciato l’industria nove anni fa. Scaroni ha un problema con la Russia.

Scaroni quando era capo di ENI, ha concluso accordi con Gazprom , il fornitore controllato dal Cremlino, e ha consolidato la dipendenza dell’Italia dal gas russo.

Nel 2010 ha visitato Vladimir Putin, allora primo ministro; la conversazione fu molto cordiale e friendly.
Oggi Scaroni rimane fedele a se stesso e inveisce, il tetto dei prezzi dell’Occidente sul petrolio russo.

Negli anni Novanta è stato arrestato a causa del suo ruolo in uno scandalo di tangenti condannato a un anno e quattro mesi di reclusione.

Come i suoi compagni di destra negli Stati Uniti, in Francia, in Germania o in Ungheria, ha proclamato una lotta culturale contro la vera o immaginaria “Wokeness”.

I concetti di “verde” e “sostenibile” lo mettono in crisi.

ENEL è un gruppo che vale 60 miliardi di euro e fornisce agli italiani molta energia verde. Quasi il 60 per cento dell’elettricità.

Enel la guadagna da fonti rinnovabili; nel 2025 la quota dovrebbe essere già del 75 per cento. E anche in gran parte senza Russian-Gas, anche grazie all’implementazione di Enel verde.

Sotto l’amministratore delegato di lunga data Francesco Starace, il gruppo non solo era verde, ma aveva anche successo in borsa.

Il fatto che ora Scaroni sia un fan della produzione di energia fossile e nucleare è una battuta di arresto anche sui mercati finanziari.

Gli italiani avevano già deciso di ritirarsi con un referendum nel 1987, e dal 1990 il paese può fare a meno di una centrale nucleare.

Supponiamo che in Italia si voglia davvero tornare al nucleare.
È un po’ come per il ponte sullo Stretto.
Ogni tanto bisogna far guadagnare i progettisti e godersi il dolce far niente.

Per citare un esempio, la centrale di Flamanville 3 Epr di Edf è in fase finale di costruzione in Francia e sta costando una cifra monstre: 12,7 miliardi (la stima era di 3,3).

Una volta in funzione i costi sono ridotti, ma bisogna ammortizzare tutto ciò che c’è stato prima. Ancora oggi il nucleare, a conti fatti, è più costoso dell’energia da fonti fossili.

Nel nucleare l’ingresso nel mercato è molto lento e costoso. L’uscita ancora di più, come sappiamo bene in Italia.

Già oggi i 450 reattori presenti in tutto il mondo e collegati alla rete consumano tutta la produzione annuale di uranio (48 mila tonnellate) per produrre 396 GWe (gigawatt equivalenti).

Si tratta di circa il 10% del fabbisogno di energia del mondo. Ma cosa accadrebbe se la corsa al nucleare civile dovesse sul serio ripartire, considerando che anche sul fronte militare la produzione di armi nucleari è aumentata?

In Italia, prima di progettare nuove centrali bisogna smantellare quelle vecchie: Trino (VC), Caorso (PC), Latina e Garigliano (CE) e alla messa in sicurezza del materiale radioattivo presente negli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare: Eurex di Saluggia (VC), ITREC di Rotondella (MT), Ipu e Opec a Casaccia (RM) e FN di Bosco Marengo (AL).

L’incarico è stato affidato alla Sogin nel 2001, prevista la fine lavori nel 2019 e i costi con un prelievo in bolletta (3,5 miliardi) a carico dei contribuenti.

Ebbene, a fine 2021 la Sogin ha completato solo il 30% del lavoro.

Secondo il rapporto del 2021 della Commissione parlamentare sulle ecomafie l’uscita dal nucleare slitta al 2035 (dovremmo fare in 12 anni il 70% del lavoro, dopo averne impiegati il triplo per farne il 30%) e costerà 7,9 miliardi.

È il caso di ricordare che l’impianto di Saluggia è considerato una bomba ecologica e già dal ‘77 la prescrizione prevede la solidificazione dei rifiuti liquidi entro 5 anni. Sono ancora lì. Caso unico al mondo.

Ogni commento è superfluo.
Inoltre, dopo tanti anni, il deposito dove custodire i rifiuti radioattivi non è ancora operativo.

Nel 2022 la società statale è finita in commissariamento e a coordinare i lavori di accelerazione è stato designato il dirigente che al momento del commissariamento era l’amministratore delegato di Sogin.

Di fronte a questa totale incapacità di gestione è complicato far digerire una nuova eventuale stagione nucleare.

Promettente invece la sperimentazione della fusione nucleare (che non c’entra nulla con la fissione), di cui si parla molto, e che è attesa se va bene entro una trentina d’anni.

Il dato certo è che comunque non potrà coprire il fabbisogno energetico globale ed è pensata come uno stabilizzatore delle risorse rinnovabili, ma non costanti (sole, vento, acqua).

Ha senso dunque spingere sulle politiche di risparmio energetico, su maggiori investimenti nelle rinnovabili e sulla ricerca, proprio perché il progresso tecnologico può rendere possibile quello che oggi ancora non lo è.