È una sceneggiatura dell’orrore la vicenda di Giulia Tramontano, la donna ventinovenne incinta al settimo mese scomparsa a Senago (MI).

La sua vicenda aveva tenuto l’intero Paese in trepidazione dal 29 maggio 2023.

Con il ritrovamento del suo corpo, la sera del 1 giugno 2023, arrivano a 45 le donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno.

Di queste, ventidue hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. 

Alessandro Impagnatiello, finito in carcere con l’accusa di aver ucciso Giulia, assassino è il padre del bambino che Giulia portava in grembo. Si tratta quindi di un duplice omicidio..

L’uomo lavora come barman e si è scoperto che conduceva una doppia vita mantenendo clandestinamente la relazione anche con una collega di lavoro all’Hotel Armani di Milano.

L’Impagliatiello è già padre di un bambino piccolo di sei anni avuto da una precedente relazione. Anche la collega del bar era rimasta incita, però aveva scelto di interrompere la gravidanza. Si tratta di un rubacuori e di un inseminatore seriale.

È come se alcuni uomini affidassero alla relazione con una donna un esercizio di potere a cui non vogliono rinunciare. 

La relazione affettiva tra uomo e donna in queste situazioni in realtà non ha niente a che fare con l’amore e l’affetto, ma è controllo, dominio e prevaricazione.

Nei confronti della donna si vuole esercitare un potere, perché certi uomini si sentono superiori, migliori delle donne, considerate in questi casi oggetti, proprietà o poco più. 

E questo purtroppo non lo vediamo solo nelle relazioni intime ma è riflesso in molti contesti della nostra società, nei media, sul posto di lavoro, nella società in generale. 

Di fronte alle statistiche internazionali della violenza contro le donne, non si può pensare tuttavia che il fenomeno del femminicidio sia collegato unicamente a una patologia psichica del maltrattatore o di chi la subisce: è un problema sociale che ha radici profonde nella strutturazione dei rapporti e nei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne. 

Le Nazioni unite da alcuni anni hanno adottato definizioni specifiche, poi riprese anche dalla Comunità europea: «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne» (Assemblea generale delle Nazioni unite, Dichiarazione del 20 dicembre 1993). 

Il vecchio adagio che dice “l’amore non è bello se non è litigarello” non sempre è  espressione di saggezza.

C’è in ogni coppia un normale conflitto, ma non bisogna accettare nessun tipo di violenza. 

Ci vuole il coraggio di troncare quando c’è una violenza di qualunque tipo, e di denunciare quando gli episodi di abuso, o comunque di insistenza forti, si ripetono.  

Da evitare come la peste l’ultimo colloquio “chiarificatore”, perché purtroppo, spesso, è l’ultimo in tutti i sensi. 
Non bisogna andarci proprio, nemmeno accompagnate perché neanche farsi accompagnare garantisce un bel niente. 
In casi del genere è molto meglio essere ineleganti e piantare via sms.

Purtroppo, non è infrequente che il femminicidio sia la tappa finale di una serie di abusi, maltrattamenti e violenze di ogni genere.
Ancora oggi le violenze psicologiche non vengono del tutto percepite come tali.

L’insulto ripetuto, ad esempio, è un tipo di violenza psicologica.

Maltrattamenti verbali e mortificazioni del tipo “non sei nulla senza di me”, per non parlare del fenomeno dello stalking sono molto frequenti.

Va detto per onestà intellettuale, che le violenze psicologiche non sono appannaggio esclusivo degli uomini: anche le donne ci sanno fare in questo senso. 

L’agente violento – non trattato dal punto di vista comportamentale, non responsabilizzato sull’antigiuridicità della sua condotta deviante – può alimentare ancora il proprio circuito del potere interrotto, attivare strumenti di rivalsa, esasperare sentimenti di rancore e vendetta in una rielaborazione della violenza che può diventare parossistica o anche estrema. 

Se si esaminassero le carte dei processi celebrati sulla violenza nella coppia troveremmo donne prima maltrattate e poi, anche dopo che l’imputato ha espiato la sua pena, aggredite con acidi sfiguranti, coltelli, o travolte con autoveicoli.

Le più fortunate diventano nuovamente vittime di lesioni personali gravissime o tentati omicidi. Qualcuna, dati alla mano, muore per recidiva di violenza.

La violenza di genere, la sua diffusione, la recidiva e l’escalation possono essere prevenute. 

Non è un problema individuale, ma una responsabilità collettiva che solo attraverso un cambiamento strutturale può far vedere gli effetti, anche se la strada da percorrere è ancora in salita. Le nuove leggi, le tante parole spese, i dibattiti televisivi da soli non bastano: c’è bisogno di un cambiamento che sia globale, culturale. 

La violenza di genere non fa distinzione fra Paesi, culture, religioni, lingue, livelli socio-economici, titoli di studio, età, colore della pelle. 

uò colpire e di fatto colpisce donne di tutto il mondo, di tutte le etnie, estrazioni sociali, livello di istruzione, religione perché la violenza di genere, soprattutto nelle relazioni intime, senza mai voler deresponsabilizzare la singola persona che la commette, è espressione del significato che hanno e hanno sempre avuto i ruoli di genere. 

La crescita dei mezzi di comunicazione e l’uso dei social media hanno creato maggiori possibilità di scambio di informazioni e di coordinamento per affrontare la violenza contro le donne sia a livello globale che nazionale e hanno contribuito a creare una maggiore indignazione pubblica. 

Tuttavia, è necessario continuare a lavorare per affrontare la resistenza conservatrice e garantire che questa rabbia pubblica non si concentri esclusivamente sui casi più crudeli di violenza, ma sulla situazione completa di esclusione subita dalle donne, poiché il femminicidio è l’ultimo anello della catena della discriminazione.

La vittimizzazione secondaria avviene quando la donna viene descritta come vittima nel discorso pubblico e mediatico e di chi agisce attorno a lei, insistendo su tematiche che poco c’entrano con i fatti ma che incitano la morbosa volontà di sapere, tipica di certa pornografia del dolore della nostra società dello spettacolo. 

Questa modalità secondaria investe non solo la memoria della vittima, ma anche il cordoglio dei parenti, circondati da giornalisti che si muovono, più che nel diritto di cronaca, in un accerchiamento che ha tutte le caratteristiche dello stalking, cioè di un’ulteriore forma di violenza In Italia oggi il sistema dei mass media amplifica e diffonde stereotipi legati al femminile.

Spettacolarizzare la violenza sulle donne è divenuta la norma. Il rispetto della privacy e di una corretta comunicazione del fenomeno del femminicidio dovrebbe essere considerato fondamentale anche a scopo preventivo: i fatti di violenza eclatanti, come dimostrano diversi studi, possono generare emulazione. 

L’estetizzazione e l’erotizzazione della violenza sono un fattore tipico della cultura patriarcale.

Nella cultura di massa la violenza, o per meglio dire l’ultraviolenza, ha strabordato i propri confini per inglobare larga parte dello spazio pubblico: la comunicazione stessa è violenta, perennemente in trincea per ingaggiare una guerra dell’audience. 

Film, programmi, format, politica e carta stampata condividono la stessa tendenza. Anche la canzone italiana, famosa nel mondo come simbolo nostrano, a suo modo perdura nell’idealizzare un modello di amore fusionale, per cui si può e si deve morire, di dipendenza, di tragedia romantica e senza fine. 

È cambiata la società, le forme di relazioni, ma purtroppo la violenza perpetrata dall’uomo nei confronti delle donne è rimasta uguale, e riguarda coppie giovani e meno giovani, che stanno insieme da trent’anni o da due giorni, coppie “ufficiali”, così come coppie “clandestine”. 

A coloro che usano violenza nei confronti delle loro partner o ex partner bisogna continuare a lanciare un messaggio di fiducia e di speranza: così come si decide di usare la violenza, si può  decidere di cambiare, di farsi aiutare, di trovare modi diversi per affermarsi e sentirsi ascoltati e amati. 

Non è con la minaccia e la paura che si vuole incutere, che ci si fa amare e rispettare davvero, ma per la propria unicità. 
Si può scegliere di essere uomini diversi. 

Ne beneficerebbero gli uomini per primi, ma anche i figli e le figlie, vittime silenziose e innocenti di violenze che li segneranno per sempre; la loro felicità presente e futura dipende anche dai padri.