L’evoluzione della popolazione mondiale è sia portatrice di conflitti che di pacificazione. Nulla è prevedibile con assoluta certezza anche se ci sono delle proiezioni demografiche che seguono i trend del momento.

Ci si chiede se in un mondo in cui la popolazione continua a crescere e le risorse sembrano limitate, finiremo per lottare per l’accesso all’acqua potabile, ai terreni coltivabili e alle materie prime.

Non è affatto sicuro che saremo a corto di risorse.

La tecnologia, il mercato e la capacità di adattamento dell’attività umana rendono questa ipotesi improbabile.

Sicuramente non ci mancherà il petrolio, per esempio, ma è possibile che il suo costo operativo diventi un giorno così alto che le aziende saranno incentivate ad accelerare la loro transizione energetica. 

In termini di cibo, ricordo che le carestie sono quasi scomparse nonostante la crescita della popolazione mondiale. 

E se esistono tensioni, sono dovute a problemi di distribuzione, speculazione, conflitti o cattiva governance, non alla scarsità di risorse.

I giorni in cui si faceva la guerra per risorse poco accessibili o rare sono finiti. Per una semplice ragione: in un’economia globalizzata – e che rimarrà tale, Covid o non Covid -, è più facile, cioè meno costoso, comprare che rubare!

Gli unici conflitti che persistono oggi in questo campo hanno per oggetto risorse non rare ma abbondanti, come minerali, legni preziosi… o idrocarburi. 

Se la Turchia sta conducendo una politica aggressiva nel Mediterraneo orientale volendo la sua parte della torta del gas, è più in una prospettiva di sovranità energetica che per paura di rimanere senza gas: ce n’è ovunque.

Quanto all’accesso all’acqua potabile è un mito anche questo. L’accesso all’acqua può essere un parametro in un conflitto, non è mai la causa principale.

 Le vere carenze d’acqua sono rare, localizzate e spesso risultano più da una cattiva gestione che da un’indisponibilità della risorsa.

Se l’accesso all’acqua viene modificato, ad esempio con la costruzione di una diga, non è al punto di mettere in ginocchio un paese. 

È un’arma che gli stati hanno sempre esitato a usare. 

Questo non vuol dire che non succederà mai…

In ogni caso, le guerre dell’acqua annunciate da trent’anni non si sono ancora verificate.

Il faccia a faccia tra Cina e Stati Uniti continuerà a dominare la scena diplomatica mondiale ma gli sviluppi demografici cambieranno il gioco.

Entro il 2030, le relazioni tra Stati Uniti e Asia rimarranno centrali, in termini economici e strategici, come lo sono oggi. 

Tre giganti demografici domineranno la scena, India, Cina e Stati Uniti. 

Ma un fenomeno interessante si verificherà a questa scadenza: le curve di popolazione della Cina e dell’India si incroceranno. 

L’India non solo diventerà la prima potenza demografica mondiale – di cui non mancherà di avvalersi – ma potrebbe anche diventare in quel momento un vero e proprio volano di crescita economica per il mondo intero, con una piramide delle età favorevole.

Mentre la Cina, invece, invecchierà rapidamente. 

La sua forza lavoro diventerà sempre meno importante mentre l’onere dei suoi anziani, in un paese che non ha un sistema pensionistico sviluppato, sarà sempre più pesante.

 Mentre la Repubblica Popolare si avvicinerà alla data simbolica del suo centenario nel 2049, avrà difficoltà a rivendicare la prima potenza mondiale. 

Quando la Cina si assopirà, l’India si sveglierà!

Il centro di gravità del mondo tutta via non sarà solo asiatico.

L’America rimarrà al terzo posto, e questo è importante. 

Questo paese ha ancora oggi una popolazione dinamica, anche se ha completato da tempo la sua transizione demografica.

Oltre al mantenimento di una fertilità non trascurabile, rimane un paese di immigrazione. 

Una tendenza contraria a quella dell’Europa la cui popolazione è in declino, e alla Russia, che ha iniziato una vera discesa agli inferi demografici. 

Inoltre, oltre questo orizzonte, c’è la decrescita di tutta l’Eurasia – Europa, Russia, Cina, Giappone, Corea… – che si delinea.

Tutte queste tendenze continueranno entro il 2050. 

Unico inconveniente: gli Stati Uniti perderanno il loro terzo posto a favore della Nigeria – il che ci ricorda che la transizione demografica è lungi dall’essere completata nell’Africa sub-sahariana – ma la portata di questa evoluzione è più simbolica che geopolitica.

Quanto alle tensioni legate ai movimenti migratori bisogna evitare sia il catastrofismo che il bonismo. 

La tendenza generale a lungo termine è verso un aumento degli spostamenti di popolazione. 

Ma questo aumento sarà lento e misurato. 

La proporzione di migranti nella popolazione mondiale è infatti poco cambiata dal 1960, nonostante i viaggi meno costosi e la possibilità di rimanere in contatto con il proprio paese di origine con la telefonia mobile. 

Ma il passaggio delle frontiere è diventato, in molti casi, più arduo.

Inoltre, i flussi migratori più massicci non sono quelli a cui si pensa spontaneamente. 

I migranti del Sud vanno più verso Sud che verso Nord, e questo sempre di più. 

Non ci sarà una corsa degli africani verso l’Europa. 

Sono gli abitanti del pianeta che emigrano di meno! 

L’idea che l’Africa si stia sviluppando e che l’emigrazione africana aumenterà quindi è giusta, poiché ci vogliono un minimo di mezzi per portare a termine un’avventura migratoria.

Suggerire come fanno alcuni che 150 milioni di africani arriveranno in Europa entro il 2050 è totalmente assurdo e non ha alcuna base empirica.

È demagogia ed allarmismo a finii ideologici suprematisti e razzisti.

Le popolazioni occidentali cambiano. 

Nel 1990, la quota della popolazione nata all’estero nei paesi europei era raramente superiore al 5%. 

Oggi è superiore al 10% nella metà degli Stati membri dell’Unione. L’America “bianca” dovrebbe diventare una minoranza entro il 2045-2050. 

Non solo la proporzione di persone nate all’estero sta aumentando rapidamente nei paesi dell’OCSE, ma la composizione di questa immigrazione sta cambiando. 

In Europa, ora proviene principalmente dal nordafrica; negli Stati Uniti, dal continente asiatico. 

Da qui la mia ipotesi che si stia sviluppando una forma di “insicurezza demografica”.

È un fenomeno più profondo e diffuso di quanto non fosse trent’anni fa. 

Si osserva sia in paesi tradizionalmente aperti all’immigrazione, come gli Stati Uniti, sia in paesi chiusi agli stranieri, come i paesi dell’ex blocco orientale, che stanno vivendo un netto declino demografico.

Il fatto che alcuni movimenti politici ne facciano il loro cavallo di battaglia ed esagerino l’ampiezza e le conseguenze del fenomeno migratorio non deve portare a minimizzare questa percezione sempre più profondamente radicata. 

È una delle chiavi, se non la chiave, del voto populista in Europa e più in generale nei paesi occidentali. 

Il populismo asseconda spesso un “ritorno alla demonizzazione dei migranti” .

Alcuni agitano persino la paura di una “grande sostituzione” delle popolazioni europee, orchestrata da Bruxelles…

Questa espressione è talvolta usata negli ambienti conservatori dei paesi occidentali, che dovrebbero descrivere un’evoluzione demografica naturale, che sarebbe persino incoraggiata da istituzioni come l’Unione europea – che, è vero, mantiene una visione a volte ingenua dell’immigrazione. 

Ma questa idea è tuttavia difficilmente convalidata dai numeri: anche se la quota della popolazione di origine non europea aumenta, la percentuale di residenti nati al di fuori dell’UE rimane inferiore al 10% nei grandi paesi.

Dietro questa nozione a volte si nasconde la paura dell’Islam. 

Da sostituzione razziale qualcuno parla oggi di sostituzione culturale.

Tenendo conto dell’ipotesi di una forte immigrazione, si stima che l’Europa non conterebbe più del 15% di musulmani nel 2050. 

Non proprio una “sostituzione”… 

Ma si può prevedere che la popolazione dei paesi occidentali sarà molto più diversificata nel 2050 di quanto non fosse nel 1950.

Il completamento della transizione demografica nella stragrande maggioranza dei paesi lascia sperare a medio termine una diminuzione dei conflitti interni, poiché la propensione di una società alla violenza collettiva è correlata alla forma della sua piramide delle età.

Un mondo più vecchio sarebbe anche un mondo in cui, a parità di condizioni, il rischio di conflitti tra Stati diminuirebbe. 

Esiste infatti una forte correlazione tra l’età media e lo stato della democrazia: non appena questa età supera i 29-30 anni, la probabilità che un paese sia una democrazia stabile diventa superiore al 50%. 

Tuttavia, una delle poche leggi verificate della scienza politica è che le democrazie non si fanno la guerra.