Negli Stati Uniti, molti latinos lasciano la Chiesa cattolica. È la preoccupazione che era al centro dell’ultima Assemblea plenaria, a giugno, dei vescovi americani. Nella Carolina del Nord, la diocesi di Raleigh, sotto la guida di un vescovo di origine colombiana, si lotta per conservare i latinos, che rappresentano la metà dei fedeli.

L’arrivo in numero degli ispanici negli Stati Uniti, dalla seconda metà del XX secolo, per lavorare nei campi o in fabbrica, ha dinamizzato la Chiesa cattolica negli Stati Uniti. 

Ma fino a quando? Ad aprile, uno studio del Pew Research Center ha rilevato il rapido declino della fede tra i latini che vivono negli Stati Uniti: meno della metà di loro oggi si dichiara cattolica (43%), rispetto al 67% del 2010.

Se le chiese evangeliche progrediscono poco tra i latini – 15% oggi contro il 12% del 2010 -, sono i “senza affiliazione religiosa”che hanno il vento in poppa, passando dal 10% al 30%.

 “Non mi sorprende”, reagisce Andrew Chesnut, antropologo delle religioni presso l’Università del Commonwealth della Virginia ed esperto del mondo ispanico.

“Questa evoluzione corrisponde a quella degli altri latini, in Brasile o altrove. 

Tuttavia, questa tendenza non è sinonimo di crescita dell’ateismo. Il distacco dalla Chiesa cattolica avviene a favore di credenze diverse, più o meno New Age o esoteriche”.

Per monsignor Luis Zarama, vescovo di Raleigh, diocesi i cui fedeli sono per metà latini e da cui dipende Nostra Signora di Guadalupe, è innanzitutto essenziale, per fermare questa tendenza, dare loro un posto nella Chiesa.

 “Questo passa attraverso l’uso dello spagnolo, ovviamente, ma non solo”, insiste questo nativo di Pasto, nel sud della Colombia.

C’è, ad esempio, la questione delle donazioni.

“I latinos sono spesso criticati per non aver contribuito abbastanza”, spiega Agata, una polacca arrivata venticinque anni fa a Clinton, un altro piccolo comune della diocesi di Raleigh. 

Dopo essersi dedicata ai suoi figli, è stata assunta in parrocchia qualche anno fa.

 “Gli americani fanno assegni, i latini danno piccole banconote”, spiega, ricordando che questi assegni, che lei registra, danno luogo a detrazioni fiscali.

 “Ma gli ispanici organizzano festeggiamenti in parrocchia, soprattutto intorno al cibo, per raccogliere denaro. È diverso, ma è molto efficace. Bisogna lasciarli fare!”

Trovare un posto per i più giovani è particolarmente difficile.

“La sfida è mantenere la generazione nata negli Stati Uniti – riconosce monsignor Zarama – non sono più necessariamente molto a loro agio in spagnolo e hanno abitudini culturali proprie della loro generazione”. 

Più americani dei loro genitori, condividono i valori degli altri giovani che frequentano. 

Sull’aborto, per esempio. Un sondaggio ha indicato l’anno scorso che il 41% dei latini nati al di fuori degli Stati Uniti riteneva che l’aborto dovesse essere legale, rispetto a circa il 60% di quelli nati sul suolo americano.

Il vero problema è dunque l’inculturazione del Vangelo in un contesto dove i latinons si sentono forse discriminati e neanche accolti e capiti dalla stessa Chiesa Cattolica.

L’episcopato degli USA dovrà riflettere su come collaborare con l’autorità politica mantenendo la giusta libertà ed autonomia istituzionale di Chiesa.

Fu controversa qualche anno fa la questione dell’ammissione alla Comunione di politici dichiaratamente favorevoli all’aborto.

Una realtà sacra e santa come l’Eucarestia, tuttavia, non può essere utilizzata come ago di consenso elettorale, specie in prossimità di elezioni politiche polarizzate.

Altro tema importante è rappresentato dall’efflorescenza di media di una certa popolarità non sempre allineati con il pontificato e alle volte addirittura ostili e ipercritici.

Se l’episcopato rimanesse eterogeneo e alcune diocesi autocefale di fatto, le criticità non sorgerebbero solo per i latinos.