Il 2023 ha reso l’America Latina il terreno di coltura per un laboratorio politico sulla salute della democrazia.

Le agitazioni sociali in Perù, Brasile, Messico e Salvador, rivelano le conseguenze di promesse messianiche di leader che costruiscono il loro successo sul fallimento di un sistema di partito.

In Perù si chiedevano con insistenza le dimissioni del Presidente.

Il Brasile ha emulato l’assalto a Capitol Hill dopo la sconfitta elettorale del leader di destra Jair Bolsonaro.

In Messico il presidente Andrés Manuel López Obrador ha blindato il suo potere con una riforma elettorale approvata da un Congresso dominato dal suo movimento politico.

Da quando è salito al potere in Salvador  il presidente Nayib Bukele, ha dichiarato lo stato di emergenza sospendendo i diritti fondamentali costituzionali.

Sebbene questi casi siano molto diversi tra loro, sono gli esempi degli amari frutti di un virulento populismo che negli ultimi tra decenni fa sempre più presa nelle coscienze popolari.

In America Latina occorre riconoscere la legittima esasperazione dei cittadini per la corruzione all’interno delle istituzioni che più dovevano garantire loro benessere e pace.

Il problema nasce dalle disattese promesse dei leader populisti che hanno ricordato l’antico adagio per il quale si “stava maglio quando si stava peggio”.

Il rimedio populista è stato peggiore del danno stesso.

Si sta quindi radicando in America Latina una sfiducia profonda nei confronti di tutte le istituzioni.

La democrazia regredisce, mentre la corruzione galoppa in avanti.

In Perù, nel 1990 con l’ascesa al potere di Alberto Fujimori, vennero prese di mira le élite politiche e benestanti del paese.
Pochi anni dopo se ne fece emulo in Venezuela Hugo Chávez con una versione populista anti-corruzione che ha giustamente sedotto l’elettorato per deluderlo alla prova dei fatti.

In Brasile, è sembrato assistere a una schizofrenia politica o almeno a una memoria corta degli elettori.

Lo scandalo Lava Jato, che vedeva implicata in fatti di corruzione la Petrobras a favore del governo di sinistra, portò nel 2018 all’elezione di Bolsonaro.

Il presidente sconfitto fu persino incarcerato e successivamente rilasciato.

Lo stesso Lula da Silva, dopo essersi rimesso in sella, ha riportato nel 2022 la vittoria elettorale su Bolsonaro.

Complice di questo successo è stata l’incapacità del politico Bolsonaro di gestire, secondo le aspettative, la crisi da Covid-19.

La pandemia, infatti, negli ambienti teocon e populisti è stata letta in modo complottista, senza specificare chi e cosa.

La nemesi contro i vaccini e i lockdown con la quale si sperava consolidare l’elettorato di destra populista, è finita col riconsegnare il potere all’opposizione.

L’ascesa di outsider populisti non è solo il segno inequivocabile di un sistema partitico afflitto da gravi problemi di credibilità.

È anche un potente polverizzatore dei sistemi di partito.

Si assiste a una giostra di candidati alla presidenza dei Paesi perché la frammentazione dei partiti e la loro disunione impedisce la costruzione di maggioranze.

La crescita della sperequazione sociale, poi, porta al voto di protesta o alla disaffezione dai doveri elettorali che penalizza l’analisi di programmi politici e la loro effettiva sostenibilità.

Non sorprende che in molti luoghi dell’America Latina la strada abbia sostituito le istituzioni rappresentative come sede naturale per trasmettere pressioni a lungo represse per migliori servizi pubblici e per correggere profonde disuguaglianze.

Sulla strada, però le proteste lasciano purtroppo la scia del sangue dei manifestanti.

Il collasso dei sistemi partitici porta all’emergere di outsider messianici che accelerano l’erosione della democrazia con il pretesto di liberarla dalla decadenza.

Donal Trump negli USA ha vinto per un’identità dinamica populista.

Per i populisti, i controlli e gli equilibri che definiscono una democrazia sono lussi superflui o, peggio ancora, distorsioni che impediscono di ascoltare la voce del popolo.

Questa è una ricetta pericolosa per la democrazia e terribile per le persone che si preoccupano di combattere la corruzione, che prospera dove il potere è incontrollato.

Se i politici e le società latinoamericane prendono sul serio i gravi problemi di corruzione che affliggono la regione, devono sfuggire a questo circolo vizioso.

Devono costruire istituzioni come solidi partiti politici, magistrature indipendenti, autorità elettorali imparziali e solide tutele legali per la libertà di stampa e l’attivismo civico. In altre parole, tutte le cose contro cui i populisti si scagliano incessantemente.

Comune denominatore dell’America Latina è la fede cristiana.

La dottrina sociale della Chiesa ha, specie in questi ultimi decenni, illuminato sui limiti del populismo.

Le ricadute sociali del populismo nel momento in cui il comportamento dei leader si insinua nel corpo sociale, diffonde degrado morale nonché perdita del senso dello Stato e del bene comune, dei principi democratici, mentre si affermano comportamenti razzisti e atteggiamenti contrari alla solidarietà.

La comunità cristiana, rinnovata nella sua missione evangelizzatrice, è il baluardo dell’auspicato cambiamento verso la buona politica.

Una proposta che va in direzione “ostinata e contraria” rispetto alle prassi che si stanno affermando: dialogo, incontro, unità sono le parole chiave in opposizione a scontro, disgregazione, opportunismi, turpiloquio per una politica che formi i cittadini al bene comune, superi l’individualismo e cresca nello spirito di servizio.

Come diceva il buon padre Sorge, dal suo osservatorio di Palermo: “Il populismo non fa bene al popolo”.