Durante la guerra civile cinese del 1949 i nazionalisti di Chiang Kai-shek sconfitti da Mao Zedong si rifugiarono a Taiwan, la cui sovranità è riconosciuta  solo da 15 Stati al mondo, Santa Sede inclusa.

La Repubblica Popolare Cinese, invece, considera l’isola una sua regione e vorrebbe riprenderne il controllo entro il 2050, possibilmente in maniera pacifica.

In base al “consenso del 1992”, Pechino e Taipei concordano  sull’esistenza di “una sola Cina” come identità culturale ed etnica, ma dissentono su chi debba governarla.

A meno di 150 Km di distanza dalla Cina continentale, la grande isola servirebbe alla Repubblica Popolare per egemonizzare ulteriormente il Pacifico.

Gli Usa, invece, considerano Taiwan funzionale a un eventuale attacco militare contro la Cina o un elemento con cui danneggiare il soft power di Pechino in immagine internazionale e in produzioni low cost di massa di componenti altamente tecnologici.

Il punto fermo è che sia il governo attuale, che la popolazione di Taiwan, non sono disposti alla riunificazione politicacon la Cina continentale.

Taipei esita a indire un referendum per dichiarare ufficialmente l’indipendenza dalla repubblica Popolare Cinese, temendo ritorsioni militari ed economiche.

Se Pechino tentasse di riprendersi l’isola con la forza, tuttavia, si esporrebbe all’intervento militare degli USA e del Giappone che acquisterebbero ulteriore vantaggio strategico nel Pacifico.

Malgrado le apparenze, nessuno vuole la guerra: Cina, Stati Uniti, Taiwan.

Nel gennaio 2024 si terranno le elezioni presidenziali e legislative a Taiwan.

Questo rappresenta un fatto cruciale perché il Kuomintang, che è il partito dell’opposizione, è oggi più favorevole all’unificazione.

In caso di vittoria i piani di Pechino verrebbero soddisfatti senza colpo ferire.

Qualora invece dovesse riportare la vittoria elettorale il partito democratico Progressista (DPP) attualmente al governo, la linea intransigente verso Pechino porterebbe a uno scenario più critico.

Da primavera 2023 c’è un’ incremento di esercitazioni militari aeronavali nell’area prospiciente Taiwan.

Da un lato c’è la Marina cinese, dall’altro la flotta nel Pacifico degli USA insieme alle Marine del Giappone e della Corea del Sud con la prossima discesa in campo dell’Australia e dell’alleato di sempre, la Gran Bretagna.

In questa operazione di deterrenza militare sta per inserirsi anche l’Italia con la portaerei della Marina Militare Cavour e altre tre navi di scorta e supporto logistico che solcheranno il Pacifico e il Mar Cinese a partire dall’autunno 2023.

Questa proiezione delle nostre navi in mari così lontani, aumenterà notevolmente le spese della Difesa che il governo spera di ammortizzare con delle presunte commesse navali e militari soprattutto dall’India, nemico atavico e strategico della Cina.

Occorre poi assicurare la sicurezza nel Mediterraneo, specie con la crisi Ucraina in atto, e questo non potrà che farsi con l’altrettanto dispendioso aumento della presenza militare in mare e la complessa macchina logistica e manutentiva nei nostri porti.

Il dato è comunque interessante perché rivela come l’Italia voglia ora intraprendere una linea strategica e industriale meno franco-tedesca a favore piuttosto degli anglo-americani.

E’ nata oltretutto una joint-venture con Inghilterra e il Giappone per lo sviluppo dell’aereo di combattimento di sesta generazione, benché Germania e Francia si stiano cimentando su uno stesso prodotto.

È evidente che “l’economia che uccide” stigmatizzata da Papa Francesco, stia passando dalla finanza iniqua all’economia reale attraverso la corsa agli armamenti e le guerre assassine.

La storia insegna che la produzione di armi e il loro accumulo sia qualcosa di estremamente pericoloso per chi voglia mantenere a lungo la pace.

Paradossalmente la deterrenza nucleare con la sua distruttività di massa e senza ritorno ha assicurato nel mondo sette decenni di pace.

Il ritorno alle tattiche di prossimità, benché con l’impiego delle sofisticate tecnologie, rispolvera il concetto di guerra dello stratega prussiano Carl von Clausewitz.

Se nell’epoca del nucleare il nemico è la guerra stessa, con il ritorno all’antica, la guerra diventa continuazione della politica con altri mezzi.

Se le vecchie idee credute superate ritornano, non si può superare il ritorno dei vecchi fantasmi.