Papa Francesco ha ricevuto, separatamente, mercoledì 22 novembre, una delegazione israeliana e una palestinese. Davanti a loro, ha espresso il suo dolore di fronte alla guerra. E ha assicurato ai membri di ogni campo che erano vittime del “terrorismo” attuato dai loro nemici.

Si sono presentati all’ingresso del Vaticano poco dopo le 7 del mattino. Questo mercoledì 22 novembre, le famiglie di ostaggi israeliani hanno un appuntamento con Papa Francesco. C’è Evgeniia Kozlova, la madre di Andrei, o Maayan, la figlia di Drir, o Moshe Leimberg, il padre di Mia, 17 anni. Tutti sono venuti qui per evocare i loro parenti, rapiti il 7 ottobre e trattenuti nella Striscia di Gaza.

Vogliono sensibilizzare Papa Francesco al loro dramma.

Perché credono, come Rachel Goldberg, il cui figlio di 23 anni è caduto nelle mani di Hamas, nella sua «influenza in tutto il mondo. “Quando parla, il mondo ascolta davvero», è convinta. 

E non solo gli 1,3 miliardi di cattolici. «Penso che sia molto rispettato nel mondo musulmano», ritiene.

Fuori questione per le due delegazioni l’incrociarsi

In un salone di Santa Marta, la casa dove vive e lavora il Papa, le dodici persone che compongono il piccolo gruppo espongono la situazione di un padre, una figlia o un nipote trattenuto a Gaza, tra i 240 ostaggi. 

Per una ventina di minuti, Francesco ascolta. 

Troppo breve per far esprimere tutti quelli che sono nella stanza. Solo otto dei dodici presenti possono parlare.

Ma quando il Papa si esprime a sua volta, a porte chiuse, per sodalizzare con la loro sofferenza, afferma che la guerra deve finire ora, che gli ostaggi devono essere liberati immediatamente. 

Dice anche che i suoi interlocutori sono vittime di ‘terrorismo’, e non solo di ‘guerra’. Una frase che ripeterà un po’ più tardi, in piazza San Pietro, davanti a migliaia di fedeli.

L’appuntamento termina, e il Papa ora attraversa qualche decina di metri per unirsi a un secondo gruppo, composto, questa volta, da palestinesi i cui parenti vivono a Gaza. 

Fuori questione per le due delegazioni di incrociarsi, quindi il Vaticano ha proposto due luoghi distinti. Agli israeliani, Santa Marta. 

Ai palestinesi, l’auletta Paolo VI, come viene soprannominata qui in Vaticano. Un piccolo salone, situato sul retro dell’enorme sala Paolo VI, dove Francesco riceve generalmente il mercoledì mattina, prima della sua udienza generale di metà settimana

«L’abbiamo sollecitato di visitare Gaza»

Di fronte a lui, questa volta, dieci palestinesi. 

Sono da poco passate le 8 del mattino, quando il Papa entra nella stanza. È qui che sente Shireen Hilal, cristiana venuta da Betlemme. La sua famiglia è a Gaza. La giovane donna con i capelli ricci, keffieh intorno al collo, ha perso due zii, negli ultimi giorni. Per mancanza di farmaci.

Al suo fianco, Mohammed Halalo, un ingegnere di Gaza, che vive in Belgio da diversi anni, ha appreso della morte di tutta la sua famiglia. Nel campo di Gaza est dove lui stesso è nato, prima di raggiungere l’Europa, la sua casa è stata distrutta da un missile inviato dall’esercito israeliano.

«Trenta persone vivevano in questa casa – dirà più tardi davanti ai giornalisti – Mia madre, le mie sorelle, i suoi figli, tutti sono stati uccisi in un istante. Trenta vite».

Il Papa ha parlato di ‘genocidio’ a Gaza?

La testimonianza di Yusef Al Khoury, un cristiano originario di Gaza, è simile nell’orrore. Ha perso molti dei suoi amici d’infanzia, nell’attacco che ha colpito una chiesa di Gaza il 19 ottobre.

Quel giorno, 18 cristiani hanno perso la vita lì. 

Con gli altri palestinesi venuti a incontrare il Papa, chiede a Francesco di andare a casa sua.

«Abbiamo chiesto al Papa di aiutarci a fermare questa guerra. Lo abbiamo messo in fretta di visitare Gaza”, dirà più tardi».

Durante i venti minuti dell’incontro, i dieci palestinesi presenti dicono di aver visto il Papa piangere, sentendo alcune testimonianze. “Non è guerra, è terrorismo”, ripete il Papa. Le stesse parole usate davanti al gruppo israeliano, meno di un’ora prima. Parla anche, affermano, di un “genocidio”, evocando la situazione dei Gazai presi sotto il fuoco dell’esercito israeliano.

«Vedo il genocidio», avrebbe detto così. Più tardi nel pomeriggio, mentre la delegazione palestinese racconterà ai giornalisti di aver sentito questo termine, il Vaticano negherà l’uso di questa parola da parte del Papa.

Papa Francesco incontra i palestinesi i cui parenti sono bloccati a Gaza il 22 novembre 2023. Poiché le delegazioni israeliane e palestinesi non hanno voluto incontrarsi, è stato necessario installarli in due stanze diverse della residenza del Papa. 

«Non so che abbia usato una parola del genere», affermerà il direttore della Sala Stampa, Matteo Bruni, lui stesso presente durante l’appuntamento con i due gruppi. 
Una smentita che provocherà la rabbia dei membri del gruppo palestinese: «Ma siamo in dieci ad averlo sentito!»

«Che il Signore ci aiuti, che ci aiuti a risolvere i problemi»

Alla fine dell’appuntamento, il gruppo si è unito a Piazza San Pietro, dove è stato riservato loro un posto vicino ai colonnati. 

Più volte posti sotto l’occhio delle telecamere vaticane, brandiranno sciarpe con i colori della Palestina, e cartelli che denunciano un “genocidio” a Gaza e la continuazione della “Nagba” (disastro, in arabo), che designa l’esodo forzato di 900.000 palestinesi dopo la guerra del 1948 tra Israele e una coalizione di paesi arabi.

«Stanno soffrendo tanto. Ho sentito come soffrivano, entrambi», dirà Francesco davanti a migliaia di fedeli. 

Come continua a fare dal 7 ottobre, data dell’attacco di Israele da parte di Hamas, lancerà un nuovo appello alla pace.

«Siamo al di là della guerra. Questa non è una guerra, è terrorismo. Che il Signore ci aiuti, che ci aiuti a risolvere i problemi, a mettere da parte le passioni, che alla fine uccidono tutti. Preghiamo per il popolo palestinese, preghiamo per il popolo israeliano, perché arrivi la pace», continua il Papa, visibilmente segnato da questi incontri mattutini.