Tra i laghi lucidi dell’Alberta e il cielo terso delle Montagne Rocciose, si apre il G7 più distorto della memoria recente. Doveva essere il vertice dell’intelligenza artificiale, delle tecnologie quantistiche, dei migranti e dei dazi. È diventato, invece, l’ennesimo capitolo di quel teatro geopolitico in cui si rincorrono le sirene dell’apocalisse e le eco dei missili tra Israele e Iran.

Giorgia Meloni vi approda in punta di piedi — ma con passo deciso — consapevole di portare sulle spalle un doppio ruolo che somiglia più a una condanna che a un’investitura. Da un lato, è la confidente prediletta di Donald Trump, il ritorno dell’imprevedibile, il sovrano atlantico che governa a scossoni e slogan. Dall’altro, è chiamata a disinnescarne le intemperanze: ad accompagnarlo, sì, ma con discrezione e freni d’emergenza diplomatici. Una sorta di dama di compagnia armata di garbo.

Sarebbe facile per la premier rifugiarsi nel ruolo dell’ospite cortese o della passeggera laterale. Ma la geopolitica, specie in tempi di fuoco e polvere, non permette neutralità di comodo. Così, anche se le opposizioni italiane agitano lo spettro del vassallaggio trumpiano, Meloni si muove con l’astuzia della volpe e l’umiltà del contadino: seminare relazioni, raccogliere silenzi, tenere a bada gli uragani.

La sua è una diplomazia del sottovoce, della telefonata notturna, del contatto con l’Oman e con Netanyahu, con Teheran e Bruxelles. Nulla che brilli sui titoli dei giornali, ma molto che pesa nei margini tra pace e disastro. Perché oggi, in questo G7 che avrebbe dovuto parlare di altro, la sola vera agenda si scrive nei corridoi.

In tutto questo, Roma gioca una partita tutta sua, oscillando tra Parigi che corre in avanti (e spesso in solitaria) e Berlino che cerca la quadratura del cerchio. La foto dei tre grandi europei — Macron, Merz e Sunak — riuniti senza l’Italia, a ridosso dell’attacco israeliano, è già una pagina da rileggere col senno di poi. Ma forse proprio lì si intuisce la cifra della Meloni: non sedersi per forza a ogni tavolo, ma sedersi dove può servire da ponte.

Il G7 di Kananaskis sarà, dunque, più un dramma in salotto che un vertice internazionale. Sette sessioni, mille sottintesi, e un solo imperativo: evitare che la crisi mediorientale diventi il detonatore definitivo dell’equilibrio globale. In questo, la premier italiana ha un’occasione: non brillare da protagonista, ma sopravvivere da garante.

E non è poco, in un mondo dove tutti vogliono gridare e pochi sanno ascoltare. Dove le intese si giocano nei dettagli e le parole devono pesare come pietre. In fondo, anche il compito più ingrato può diventare arte: tenere in bilico la bilancia mentre il mondo danza sull’orlo di un’altra guerra.