Una riflessione critica e teoretica sulla perdita dell’autostima culturale nei contesti segnati dalla subordinazione economica e simbolica, a partire dai numeri 51–53 dell’enciclica Fratelli Tutti. Denunciando le dinamiche di sottomissione che si attuano attraverso l’imposizione di modelli omogenei e l’interiorizzazione di un disprezzo di sé, si invita il lettore a una riscoperta della cultura come risorsa generativa e fondamento dell’identità collettiva. L’autentico sviluppo non nasce dall’imitazione, ma dalla capacità di una comunità di riconciliarsi con la propria memoria, trasformandola in visione e in progetto. Solo attraverso un rinnovamento educativo, una nuova estetica dell’identità e una pedagogia della fierezza è possibile generare cittadini capaci di abitare il mondo globale senza perdervi sé stessi, contribuendo così a una globalizzazione della dignità.

Nel solco drammatico delle dinamiche culturali globali, si insinua una tensione profonda tra l’identità dei popoli e la pressione omologante esercitata da modelli economici e simbolici egemonici, i quali tendono a presentarsi come universali ma in realtà celano logiche di dominio e di subordinazione. I numeri 51-53 dell’enciclica Fratelli Tuttidenunciano con estrema lucidità le ferite inflitte alla coscienza culturale dei popoli meno sviluppati, ferite che si traducono in forme sistemiche di sottomissione simbolica e in un progressivo disprezzo di sé. In tale contesto, il rapporto tra cultura e potere appare profondamente alterato: non si tratta solo della perdita di specificità locali, ma dell’interiorizzazione di uno sguardo distorto che induce intere comunità a rinnegare la propria storia, i propri simboli, le proprie tradizioni, considerandole non come risorse vitali, ma come ostacoli all’emancipazione. È in questo meccanismo perverso che si alimenta una forma di alienazione collettiva, nella quale l’altro diventa criterio di valore, e l’identico viene percepito come difetto. 

Un rinnovamento creativo delle radici

La nostalgia sterile per modelli altrui, che induce a copiare piuttosto che creare, è il segno di una frattura interiore profonda, che priva le società della loro capacità generativa e le inchioda a una dipendenza mimetica tanto sul piano economico quanto su quello simbolico. Così si produce una bassa autostima nazionale, che non è soltanto un problema psicologico o emotivo, ma una questione strutturale di governance e di sviluppo. Una nazione che disprezza se stessa è facilmente manovrabile, e diventa terreno fertile per ogni forma di sfruttamento, sia interno che esterno. L’imposizione di un modello unico, veicolato dai grandi flussi mediatici e digitali, non è mai neutra: essa risponde a interessi precisi, orienta i desideri, scolpisce immaginari, uniforma i sogni. Di fronte a questa colonizzazione culturale invisibile ma potentissima, la resistenza non può consistere in un ritorno nostalgico a identità chiuse, bensì in un rinnovamento creativo delle radici. È solo a partire da un’identità riconciliata con se stessa, capace di abitare la propria tradizione senza idolatrarla, che un popolo può generare futuro. Il vero sviluppo, infatti, non si misura dalla capacità di imitare, ma dalla fecondità culturale, dall’originalità con cui si riesce a rispondere alle sfide globali partendo dalle risorse del proprio ethos. Quando si demolisce l’autostima collettiva, ciò che viene compromesso è la possibilità stessa di un progetto politico condiviso, capace di durare e di incarnarsi nelle generazioni. La speranza politica si nutre del sentimento di appartenenza, del riconoscimento di un legame storico che unisce le comunità nel tempo e nello spazio. Una governance autentica deve dunque saper ascoltare le culture, valorizzarne la memoria, attivarne le energie dormienti. Ignorare la cultura di un popolo equivale a disinnescarne il potenziale trasformativo e a condannarlo all’eterna perifericità. La dignità di un popolo passa per la sua capacità di raccontarsi, di generare visioni e linguaggi propri, di costruire senso a partire dalla propria geografia spirituale. L’identità non è mai dato fisso, ma processo vivente, apertura dinamica che si modella nella relazione con l’altro. Ma proprio per questo ha bisogno di essere custodita e sostenuta, non colonizzata e svuotata. Come afferma Papa Francesco, «non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici». Perché là dove manca il senso di appartenenza, si estingue la capacità di generare futuro. Una terra sarà feconda solo se sarà vissuta come madre, e non come merce. Un popolo darà frutti solo se saprà integrare le sue memorie e le sue differenze, riconciliando le ferite della storia in una narrazione comune. 

Resistenza culturale

È in questa integrazione tra le generazioni, tra le comunità, tra i saperi, che si costruisce la possibilità di una civiltà capace di rompere le spirali dell’estraneità e del sospetto. Sottomissione e disprezzo di sé non sono dunque fatalità, ma conseguenze di scelte culturali e politiche. Contro di esse è possibile e necessario risvegliare una pedagogia della fierezza, un’educazione alla coscienza critica, un accompagnamento alla riscoperta del valore originario di ogni cultura. In tal senso, l’atto più sovversivo in un mondo appiattito sull’omologazione è credere nella propria voce, coltivare il proprio sguardo, rimanere fedeli al proprio stile. La resistenza culturale è il primo atto di liberazione. E la cultura, quando è viva, non si chiude mai, ma si dona, si contamina, si rigenera. Solo una cultura riconciliata con se stessa può entrare in dialogo autentico con le altre, senza paura e senza complessi. Così si spezza il cerchio della dipendenza, e si apre la via a una globalizzazione della dignità, nella quale nessuno debba rinunciare a ciò che è per essere accolto. In un mondo che celebra la diversità mentre ne teme la forza, il risveglio delle culture è il seme più potente della libertà futura. Ma tale risveglio esige un’opera lunga e paziente di riconversione educativa e politica: occorre rieducare lo sguardo, ricomporre il legame spezzato tra radici e futuro, tra memoria e progetto. Serve una nuova estetica dell’identità, che non riduca la cultura a folklore, ma la riconosca come sorgente di pensiero, come matrice di senso, come orizzonte simbolico da cui attingere per elaborare strategie di sviluppo sostenibile e integrale. In questa prospettiva, la cultura non è un bene secondario, ma il vero motore di ogni trasformazione duratura. È essa che dà forma alle istituzioni, che orienta le scelte collettive, che plasma l’etica pubblica. Riconciliarsi con la propria cultura significa anche riconciliarsi con la propria vulnerabilità, con i limiti storici e le ferite ricevute, nella consapevolezza che ogni identità matura si costruisce nell’accoglienza di sé e non nella rimozione. È proprio da questa riconciliazione che può emergere una nuova capacità di innovare, di dialogare, di generare. Perché innovare non significa tradire le radici, ma portarle altrove, farle fiorire in contesti nuovi, aprirle alla relazione con l’altro. E solo chi è saldo nella propria identità può aprirsi senza timore, può costruire ponti senza paura di smarrirsi. In questa direzione, la sfida educativa si configura come decisiva: educare alla fierezza e all’umiltà, alla memoria e al dialogo, alla custodia e alla creatività. Solo così sarà possibile formare cittadini capaci di abitare il mondo globalizzato senza dissolversi in esso, di partecipare alla modernità senza esserne colonizzati, di contribuire alla convivenza universale senza sacrificare la propria voce. Questo è il compito più alto della politica e della pedagogia: rigenerare comunità capaci di riconoscere il proprio volto e di donarlo al mondo come segno di speranza.