In tempi non sospetti, rispetto al crescente interesse di Putin per l’Ucraina fino all’attuale operazione bellica, mi interessai delle storie di Svetlana Aleksievic, una scrittrice bielorussa, premio Nobel per la letteratura nel 2015.

Autrice scomoda per ogni regime, la Aleksievic si definisce un’antropologa dell’impero rosso e dell’homo sovieticus.

È attenzionata dai Servizi ucraini e da quelli russi: persona non grata malgrado nativa in Ucraina e russofona di lingua.

A distanza di qualche anno dalla pubblicazione di “Tempo di seconda mano”, le sue analisi si sono rivelate profetiche sulla situazione che attualmente si vive nell’estremo Est europeo.

Svetlana Aleksievic, giornalista per formazione, consapevole che la verità della letteratura arriva in ritardo, preferisce dare voce ai protagonisti dei fatti e rielaborare retoricamente i contenuti creando una sorta di “romanzo di voci”.

Fa parlare le madri dei “ragazzi di zinco”, cioè i soldati caduti in Afghanistan e tornati in patria in bare sigillate; fa parlare le donne che hanno resistito ai nazisti; fa parlare le vittime di Chernobyl… ognuna ha qualcosa da raccontare.

Il problema per la Aleksievic è che la costante del popolo russo è il sentirsi vittima.

Già Dostoevskij diceva che “la vittima non esce più dal suo vittimismo, quasi se ne compiace, non elabora, non riflette, getta la colpa solo sugli altri”.

Putin ha saputo cogliere i sentimenti del popolo, ha parlato con la sua voce.

Il problema infatti non è Putin il presidente, è il Putin collettivo che si riconosce in lui e lo alimenta.

Putin ha raccontato ai russi che sono stati umiliati, che è tutta colpa dell’America, che hanno un grande passato. E il mondo, da complicato e confuso, è tornato a essere chiaro e lineare.

Mentre in Ucraina sognavano un futuro, in Russia guardavano solo al passato, chiudendosi in un guscio di narcisismo isolazionista.

È vero che nel corso degli anni Putin ha assunto le connotazioni di un certo misticismo russo, ponendosi interrogativi sulla sofferenza e la morte.

La maggioranza degli osservatori non percepisce il peso dell’anima russa e della sua tradizione religiosa e si accontenta di vedere in Putin i segni di una degradazione mentale, verbale, comunicativa, uno stile grottesco e una sconnessione con la realtà.

In alcune frange filo-monarchiche è fatto passare come cripto-monaco dell’Athos, reincarnazione dello Zar Nicola II ucciso dai bolscevichi nel 1918. Negli stessi ambienti si afferma che il suo riferimento culturale sia Ilia Iline (1883-1954), filosofo antibolscevico e antioccidentale, secondo cui la Russia rinascerà quando riapparirà un altare per Dio e un trono per lo zar. Ma non è casuale che per Putin il disastro supremo del secolo scorso per la Russia sia stato la deflagrazione del paese del 1990 e non la fine dei Romanov del 1918, che non abbia messo in conto la critica della Chiesa ortodossa filorussa in Ucraina (primate Onufrio), che non rifugga dal riproporre come eroica la figura di Stalin anche nelle immagini dentro le chiese e disponga nuovi monumenti al dittatore in Donbass e in Russia.

La Aleksievic ritiene che la Russia sia una nazione militare.

“Ci siamo espansi – dice – per quasi tutta la nostra storia, siamo abituati a essere in guerra. L’Europa è rimasta sotto shock per le guerre. La cultura della guerra ci domina, ragioniamo ancora in termini di rossi e bianchi, di nemici, di barricate. Ma sulle barricate non si vede più l’individuo, l’essere umano, esiste solo il nemico”.

Dal segreto degli archivi dell’ex-Unione Sovietica emerge la verità sul più terribile crimine di Stalin. Tra l’autunno del 1932 e la primavera del 1933 sei milioni di contadini nell’URSS furono condannati a morire di fame: quasi i due terzi delle vittime erano proprio ucraini!

Quella carestia di proporzioni inaudite non fu dovuta ai capricci della natura, ma venne orchestrata da Stalin per punire i ribelli delle campagne che, in tutta l’URSS, si opponevano alla collettivizzazione imposta dall’alto. In Ucraina lo sterminio dei contadini, il cosiddetto holodomor, si intrecciò con la persecuzione dell’intellighenzia e con la guerra al sentimento patriottico di un popolo.

Dal tipo di azione militare, condotta esclusivamente con un’offensiva terrestre e l’assedio delle principali città, si presume che Putin cerchi il ricatto politico o la massimizzazione della forza negoziale prima del ritiro delle truppe d’invasione.

L’obiettivo presentato come veto all’espansione della NATO nella pianura del Don non giustifica forze d’occupazione corazzate e tampoco i bombardamenti.

La legge di Murphy applicata al teatro di guerra scompagina la restaurazione imperiale zarista voluta da Putin per la Rus storica.

Troppe vittime da ambo gli schieramenti dopo pochi giorni dalle operazioni; soldati russi accolti male anche nelle regioni dove non si prevedeva nessuna resistenza; manifestazioni di piazza in Russia; crollo della credibilità internazionale della Russia e isolamento internazionale; sanzioni economiche costringenti ai danni della Russia e possibile processo internazionale per crimini di guerra.

Nel 1991 il giornalista scrittore- polacco Ryszard Kapuscinski descriveva Kyiv (Kiev), come un’immortale araba fenice.

Ha saputo sempre risollevarsi per rinascere dalle proprie ceneri.

Il lungo inverno sovietico ne ha fiaccato le fondamenta, sgualcita l’immagine, intorpidito gli umori, distrutto centinaia di edifici di pregio. Ma nulla ha potuto contro le feconde contaminazioni culturali provenienti dal cuore dell’Europa le quali, filtrando per secoli come una brezza rigenerante e ristoratrice attraverso l’Austria-Ungheria, hanno alimentato nel profondo l’animo mitteleuropeo dei suoi abitanti. Di tutte le grandi città dell’ex URSS, Kiev è rimasta l’unica dove le strade non servano a filare di corsa a casa, ma anche a camminare, a passeggiare. Un po’ come a Pietroburgo, solo che lì si è ostacolati dal clima meno dolce, spesso ventoso, piovoso, se non addirittura gelido. Kiev invece è temperata, riparata, scaldata dal sole. Di pomeriggio il centro si popola di una marea umana, composta non da gente che sfila per motivi politici o va a un comizio, ma da migliaia di semplici passanti che escono da uffici e appartamenti ristretti e soffocanti per respirare una boccata d’aria.

Quella passeggiata e quella boccata d’aria sono espressione di un’irrinunciabile libertà per la quale oggi il popolo ucraino imbraccia i fucili e allestisce le molotov in un conflitto dalla durata incerta e dalle conseguenze nefaste non solo per Putin.