In un fraterno e costruttivo scambio di idee sull’attività missionaria della Chiesa, un padre gesuita mi ha consigliato la lettura del libro dal titolo “Dialogue of Life: A Christian Among Allah’s Poor” [Dialogo di vita. Un cristiano tra i poveri di Allah].
Sono riuscito a procurarmi la versione elettronica del testo che esiste solo in lingua inglese, ma si legge bene per il dettato fluido e chiaro.
Il libro è l’autobiografia di Bob McCahill, un prete missionario di Maryknoll che da molti anni opera tra i musulmani poveri del Bangladesh.
Ci sono dei passi che traduco e vorrei condividere per la comune edificazione e per averne sperimentato nei fatti la validità dei propositi durante la mia esperienza prima in Brasile e poi in Benin.
Rispondendo alla domanda su come i religiosi cristiani siano “evangelizzati” dai poveri, McCahill parla con chiarezza di quanto si riceva lavorando con i poveri. Molte di queste riflessioni potrebbero applicarsi al lavoro a fianco di chiunque si trovi nel bisogno estremo: Mi sembra che i poveri ci evangelizzino dandoci buoni esempi di vario tipo. Ci istruiscono sulla pazienza attraverso la loro pazienza nelle avversità. Ci edificano attraverso le loro fatiche sopportate senza lamenti. Ci ispirano subendo la sofferenza senza inasprirsi. Ci incoraggiano a essere più coraggiosi nell’affrontare i nostri problemi, lottando con il dolore nelle loro vite. Ci danno lezioni sulla semplicità con cui una vita umana può essere vissuta. Ci offrono un modello di vita di preghiera attraverso il loro abbandono a Dio: ovvero, nei momenti di bisogno estremo prima di tutto si rivolgono a Dio. Non ricorrono a Dio in seconda o in ultima battuta, dopo aver esplorato invano altre possibilità. Quando assistiamo ai loro sforzi di sopravvivere con dignità tra le difficoltà perennemente sul loro cammino, ci aiutano a ridimensionare i nostri problemi ingigantiti. Attraverso i poveri in difficoltà cominciamo a capire quanto Dio sia buono con noi e quanto avari di ringraziamenti noi siamo nei suoi confronti. Se ci pensiamo bene, i poveri ci mettono in imbarazzo, perché, per quanto oppressi, riescono ancora a ridere e a cantare.
Ovviamente, i poveri con cui lavoriamo non sono lì solo per “fare” qualcosa per noi. Il libro di McCahill parla principalmente di amicizia e amore, non di opportunismo. Ma offrire un qualunque tipo di servizio – con una persona malata o sola e reclusa, in un’organizzazione che si occupa dei diseredati – ci ricorda di essere grati per quello che abbiamo. Questa gratitudine ci può trasmettere un senso di affidamento al Dio che ci vuole bene, che conduce alla gioia frutto della fiducia.
Come ci evangelizzano i poveri?
È da tenere a mente che Dio è con loro. Per noi Dio è un mistero e come Dio operi mediante i poveri sfugge alla nostra capacità d’analisi.
Aiutando gli altri, usciamo dalle nostre comfort zone per entrare in luoghi inattesi di vulnerabilità, dove spesso è più facile incontrare Dio. Con questo non si vuole dire che Dio ci obblighi a diventare vulnerabili ma, piuttosto, che quando ci troviamo in luoghi sconosciuti, a guardia bassa, potrebbe essere più facile per Dio fare irruzione. Il servizio, spesso profondamente sconcertante – pensiamo a quando si assiste un familiare malato – può portarci a Dio in modi nuovi e spesso alla gioia.
Più ci si avvicina a Dio, più si prova un senso di profonda gioia. Così, ci sarà gioia per chi segue i propri desideri profondi e vive appieno la propria vocazione. Ci sarà gioia per chi segue la chiamata di Dio a prendersi cura degli ultimi tra i nostri fratelli e sorelle. E ci sarà gioia per chi segue l’invito di Dio ad amarsi gli uni gli altri. La gioia, spesso risulta non solo dal seguire la propria vocazione esistenziale, ma dall’aiutare chi è nel bisogno e dall’amarsi gli uni gli altri. Insomma, la gioia non è qualcosa di egoistico da cercare, ma qualcosa di altruistico da trovare.