A Roma, martedì 3 giugno, si è consumato uno di quegli incontri che, sotto la superficie delle dichiarazioni diplomatiche, racconta molto più di quanto dicono i comunicati stampa. Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, incarnazioni di due visioni politiche solo in apparenza inconciliabili, si sono seduti per più di tre ore a Palazzo Chigi per ricucire una relazione bilaterale fatta di tensioni, incomprensioni e sfide condivise. La parola chiave, stavolta, non è stata “conflitto”, ma “complementarietà”.

Dietro i sorrisi e la formula di rito sulle “profonde convergenze”, si nasconde l’urgenza di un’Europa che scricchiola sotto il peso del disimpegno americano, delle incognite ucraine, della competizione interna per la leadership continentale e dell’avanzata dei sovranismi. E in questa partita a scacchi strategica, Italia e Francia hanno più da perdere che da guadagnare dal continuo muro contro muro.

Il ritorno alla diplomazia dei fatti

Non era scontato. Le relazioni tra Parigi e Roma erano da tempo congelate a livello di vertice, nonostante la piena operatività del Trattato del Quirinale e la cooperazione ministeriale che ha continuato a funzionare. Il gelo si era fatto ancora più rigido dopo l’assenza di Meloni nella visita a Kiev accanto a Macron, Merz, Starmer e Tusk. A ciò si aggiunge il sospetto, da parte francese, che la premier italiana coltivi un’ambiguità di fondo nei confronti del trumpismo e di alcune spinte centrifughe europee.

Ma Macron ha scelto di rompere l’inerzia. Lo ha fatto per almeno tre ragioni: primo, perché l’Europa deve trovare una voce comune nell’era post-Atlantica, dove il ritiro USA dalle posizioni chiave del continente è ormai più che una possibilità; secondo, perché l’asse franco-tedesco, per quanto centrale, non basta più a reggere l’architettura comunitaria; terzo, perché lasciare l’Italia ai margini significa indebolire l’intero fronte europeista.

Il linguaggio dell’egemonia

Il linguaggio usato dopo l’incontro parla da solo: “profonde convergenze”, “coordinamento europeo”, “agenda condivisa”. Nessun accenno ai nodi veri: disuguaglianze interne, crisi climatica, povertà energetica, precarietà sociale. È la grammatica dell’Europa fortezza, che di fronte all’incertezza sceglie la scorciatoia del riarmo e della verticalizzazione delle decisioni. Le differenze tra Macron e Meloni, a ben vedere, sono più di forma che di sostanza. Entrambi sono interpreti di un europeismo condizionale: funzionale alla stabilità dei mercati, ma incapace di farsi progetto popolare.

La destra meloniana ottiene così legittimità internazionale senza rinnegare nulla del proprio impianto ideologico. La Francia macroniana, invece, gioca su due tavoli: isolare le destre all’interno, trattare con esse all’esterno. È la vecchia logica della “ragion di Stato”, che qui si declina in chiave post-sovranista: ciascuno resta sé stesso, ma si riconosce nel bisogno di una governance continentale capace di contenere le spinte centrifughe, di sinistra e di destra.

Dove sono i popoli?

In tutto questo, a mancare completamente è la voce dei cittadini europei. Si discute di come evitare la vulnerabilità militare, ma non si parla di come affrontare la vulnerabilità sociale. Si preparano bilanci più flessibili per armarsi, ma si mantengono rigidi per la sanità, l’istruzione, la casa. E mentre si riaprono i canali diplomatici tra capitali, si lasciano chiusi quelli con le piazze, i lavoratori, le famiglie.

Anche il nodo della cittadinanza europea, sollevato da tempo dalla società civile, non entra nell’agenda. Eppure, se c’è qualcosa che davvero unirebbe l’Europa, non sono i satelliti né i missili, ma l’uguaglianza dei diritti, la mobilità sicura, la partecipazione dei giovani e dei migranti alla vita politica del continente.

L’Europa del disincanto

L’incontro tra Meloni e Macron non è un segnale di pace, ma di ordine. L’ordine dei governi, delle cancellerie, degli apparati. In un’Europa sempre più spaventata, che si rifugia nella sicurezza come risposta a tutto, il rischio è che si dimentichi la sua vocazione originaria: non solo difendersi, ma trasformare il presente. Dalle sue fondamenta.

E allora sì, Meloni e Macron si parlano. Ma la domanda che resta è: chi parla per noi?