All’indomani della scomparsa di Benedetto XVI, il suo segretario personale, Mons. Georg Gaenswein, è stato naturalmente molto sollecitato dai media per raccontare gli ultimi istanti di vita del Papa Emerito e i trascorsi più significativi inaugurati al Dicastero per la Dottrina della Fede prima, al Palazzo Apostolico poi e finalmente nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano.
In un’intervista a Guido Horst pubblicata alla vigilia dei solenni funerali dal giornale tedesco Die Tagespost, Mons. Gaenswein ha voluto anche aggiungere considerazioni personali, che non potranno più essere contraddette o confermate dal defunto, toccando il tema della liturgia preconciliare.
“Credo che il motu proprio (Traditionis Custodes ndr) abbia spezzato il cuore di papa Benedetto”.
Sono conclusioni soggettive che già stanno alimentano veleni nella Curia e polarizzazioni all’interno del mondo cattolico.
Tra Papa Francesco e il suo predecessore Benedetto XVI i rapporti si erano sempre mantenuti fraterni e collaborativi.
Non è utile in questo momento ritornare su una questione che aveva fatto sentire gli ultratradizionalisti legittimati nella loro opposizione alla lex orandi del Rito Romano che trova l’unica espressione nei libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II.
Nel 2020 infatti, i vescovi cattolici dell’orbe erano stati consultati per una valutazione sugli effetti pastorali e disciplinari della Messa tridentina liberalizzata nel 2007 proprio da Benedetto XVI con il motu proprio Summorum Pontificum.
Secondo Mons. Gaenswein “si trattava di aiutare quelli che semplicemente avevano trovato una casa nella vecchia messa a trovare una pace interiore, trovare una pace liturgica di trovare una pace liturgica e sottrarli a Lefebvre”.
Premesso che il disatteso auspicio di Benedetto XVI era piuttosto quello di riavvicinare a Roma i lefebvriani, gli effetti dell’esperimento sono stati divisivi e hanno prodotto fratture profonde in qualche monastero o istituto religioso come i Francescani dell’Immacolata.
Tutto questo, a distanza di qualche anno, aveva determinato papa Francesco al ridimensionamento della liturgia secondo il Vetus Ordo così come già aveva stabilito Giovanni Paolo II.
La disciplina liturgica sul ritorno alla situazione precedente al Summorum Pontificum era stata quindi specificata da un breve e chiaro documento di Papa Francesco del 2021, Traditionis Custodes, dove, tra l’altro veniva messo l’accento sull’elemento ecclesiologico, pastorale e disciplinare tenendo a mente la comunione e la carità e non la semplice ritualità nella vita di preghiera della Chiesa.
Il 21 maggio del 2016 in un’altra infelice dichiarazione alla stampa, Mons. Gaenswein affermava che: “Dall’elezione del suo successore, Papa Francesco – il 13 marzo 2013 – non ci sono due Papi, ma di fatto un ministero allargato con un membro attivo e uno contemplativo. Per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca. Per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora ‘Santità’”.
Ricordiamo come fino ad oggi c’è chi ha voluto parlare di diarchia nel governo della Chiesa o costruire tesi complottiste su una coercizione nei confronti di Benedetto XVI.
La voce di un vescovo ha la sua autorevolezza in materia di Chiesa e disorienta il popolo dei fedeli. In ritardo è infatti arrivato il chiarimento quando Mons. Gaenswein il 2 gennaio 2023 a Ezio Mauro di Repubblica che gli chiedeva se fosse stato opportuno conservare il titolo di Papa Emerito, rispondeva: “Ha deciso così lui, personalmente. Penso che davanti a una decisione così eccezionale tornare cardinale sarebbe stato poco naturale. Ma non c’è nessun dubbio che c’è stato sempre un solo Papa, e si chiama Francesco”.
Quanto alle teorie cospirazioniste di una forza esterna che avesse “obbligato” Papa Benedetto XVI a dimettersi, Mons. Gaenswein rivelò quasi da subito che la decisione fu tutta e solo del Papa: “Lui mi ha detto una volta: non posso e non voglio copiare il modello di Giovanni Paolo II nella malattia, perché io devo confrontarmi con la mia vita, con le mie scelte, con le mie forze. Ecco perché il Papa si è permesso di fare questa scelta. Che secondo me richiede non soltanto molto coraggio, ma anche moltissima umiltà”.
A modo di tifoseria da stadio, come figli della cultura della controversia, i bergogliani e i ratzingeriani continuano a ferirsi e a ferire la Chiesa.
Da un lato la dinamica sinodale in Germania sta portando a richieste pressanti come il sacerdozio femminile, il celibato dei preti, l’elezione diretta dei vescovi, l’introduzione della benedizione delle coppie gay e la modifica della dottrina sui temi sessuali. Allo stesso modo negli Stati Uniti, i cui cattolici sono vivaci e hanno una mentalità imperialista sui correligionari di altri paesi, le cose non vanno meglio.
Le diocesi dilapidate per gli scandali sessuali del clero sembrano ora spalleggiare almeno per alcuni loro pastori, le posizioni dei teocon con il loro peso geopolitico dove, la preoccupazione per il diritto alla vita nascente, diventa strumentale per fare lobbismo e voti nelle campagne politiche.
Un pastore, anche nel governo di una semplice chiesa locale, deve agire come depositario di una verità che lo trascende e di una responsabilità che lo riguarda per un potere delegato dall’Alto.
Durante l’esercizio del loro ministero petrino i Papi Benedetto XVI e Francesco hanno sempre cercato di agire in scienza e coscienza pur andando alle volte incontro a scelte impopolari e controcorrenti.
Hanno entrambi cercato di guardare l’interesse sommo della Chiesa e del popolo di Dio traendone poi le dovute conclusioni e avendo l’umiltà e la grandezza di bollare e sbollare in materia disciplinare, liturgia compresa.
San Giovanni XXIII, citando S. Agostino, proprio nell’enciclica Ad Petri Cathedram, scriveva: “unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte”