Ho vissuto una particolare esperienza due giorni fa in una fredda, ma non rigida serata romana.

Uno dei senzatetto che chiede ogni sera cibo bussando alla porta del nostro studentato di San Lorenzo, versava copiosamente sangue dalla testa.

Lo chiamerò Ahmed, nome di fantasia, che significa “molto lodevole” ed è abbastanza comune in Somalia, sua terra d’origine.

Ahmed era stato colpito da una pietra scagliata da un altro abitante della strada in una delle ricorrenti scaramucce per qualche grado di alcolemia di troppo o per la contesa di qualche utensile o coperta.

Con fra Charbel, il confratello che coordina la distribuzione dei pasti caldi serali, abbiamo cercato di chiamare un’ambulanza, ma il nostro amico è scappato via come un cerbiatto impaurito.

Avevamo altri poveri da servire, ma riorganizzato rapidamente il volontariato con altri frati, ci siamo messi alla ricerca di Ahmed grazie alle tracce di sangue ancora visibili a terra grazie alle luci di città.

Quando i negozi abbassano le saracinesche, si alza il sipario di un teatro di miseria ed emarginazione nel cuore della Capitale. Non è però finzione, ma cruda realtà.

È il copione di storie inenarrabili per la loro fantasia e complessità raccontate non da attori, ma da uomini in carne e spirito, figli dell’emarginazione.

Alla fine del viale Pretoriano, dove un tempo campeggiavano le guardie dell’antica e fastosa Roma, sulle siepi a ridosso di Porta Tiburtina hanno allestito un accampamento i custodi di un contemporaneo infausto destino.

Ritrovato Ahmed siamo riusciti a convincerlo di andare in ospedale.

Abbiamo chiamato il 112, il numero unico delle emergenze, ma per quasi cinque minuti abbiamo solo sentito la registrazione del centralino in più lingue che ci rassicurava che gli operatori ci avrebbero risposto a breve…

Da lontano abbiamo visto una Punto della Polizia di Stato e l’abbiamo rincorsa sollecitando l’intervento degli agenti.

Con estrema professionalità e umanità i due poliziotti hanno innanzitutto conquistato la fiducia di Ahmed e poi hanno chiamato essi stessi un’autoambulanza.

Passano dieci minuti, passa mezz’ora….

Nel frattempo, prende sempre più vita l’accampamento e vi riconosciamo tante delle persone che bussano al nostro convento.

Trovano tempo per scherzare, familiarizzare, ragionare con dei codici di linguaggio la cui semplicità e immediatezza mi hanno positivamente impressionato.

I poliziotti sono due giovani siciliani con le loro storie, la loro vocazione e la loro missione.

Scopriamo poi di non essere molto diversi e sono essi stessi che ce lo dicono.

Passano i minuti e scopriamo che i nostri sogni e i nostri progetti nel cassetto, i nostri valori e i nostri ideali, non sono per nulla dissimili, così come la bontà e la semplicità disarmante degli abitanti della strada.

Arriva finalmente il 118 e si prendono cura di Ahmed che lamentava il fatto che nessuno fino a quel momento si fosse occupato di lui da quando è arrivato in Italia.

Disteso sulla lettiga si alza a mezzo busto e ci sorride. Pollice in su e finalmente un sorriso quasi per scusarsi se crede che tutto il mondo sia cattivo.

All’augurio di buon lavoro ai sanitari mi dicono di non ripeterlo più perché “se lavorano bene, vuol dire che la gente sta male”.

Ci capiamo e alla fine salutiamo i due giovani agenti siciliani con un bel “cumparu ‘n videmu”.

Domani è un’altra storia da raccontare…