Recandosi in Ungheria dal 28 al 30 aprile 2023, Papa Francesco ha realizzato in dieci anni di pontificato, il suo 41° viaggio internazionale.

Era importante che il Pontefice visitasse un Paese al centro dell’Europa, dove continuano ad abbattersi gelidi venti di guerra, mentre gli spostamenti di tante persone pongono all’ordine del giorno questioni umanitarie urgenti.

L’attuale instabilità politica e securitaria regionale interpella la linea politica che, poco dopo la schiacciante vittoria del 2014, l’attuale presidente magiaro ha voluto inaugurare.

Viktor Orbán, una volta salito al potere e ancora riconfermato per un altro mandato, ha rivelato l’ambizione di dotare di una propria soggettività l’Europa centrale, regione enfaticamente definita “diversa dall’Europa occidentale”.

L’Ungheria fa parte, infatti, del Gruppo di Visegrád un’alleanza culturale e politica condivisa con altri tre Paesi limitrofi: Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

La cosiddetta “dottrina Orbán” è il superamento della democrazia liberale con la “democrazia illiberale”.
Si esalta il governo dell’emergenza per giustificare l’innalzamento di muri alle ideologie politiche e alle dottrine economiche che possono perturbare l’identità sociale degli ungheresi: l’enfasi tradizionalista, il richiamo alla famiglia naturale, l’avversione alle Ong straniere, ai migranti e al suo storico patrono George Soros, la crociata contro un presunto e onnipresente “globalismo” corruttore e l’opposizione ai dogmi del neoliberismo economico.

Con il sostegno della cosiddetta “internazionale sovranista” rappresentata a suo tempo dal sostegno tecnico-finanziario di Steve Bannon, la parabola al potere del presidente Trump e la paggeria del nostro Matteo Salvini, Orban è stato capace di costruire il dispotismo usando le leggi per aggirarle, modello esportabile del “Goulash Authoritarianism”. Controllare i media per zittire l’opposizione; colonizzare le università; manipolare il sistema elettorale per ottenere maggioranze solide, da usare allo scopo di cambiare le regole a piacimento. È così nato l’autoritarismo travestito da democrazia. Ágnes Heller, filosofa e figura del dissenso durante il comunismo, ha parlato di “democratura”.

In Ungheria si è realizzato un regime che si potrebbe definire nazional-cattolico, in cui la tradizione cattolica nazionale, i valori religiosi, la Chiesa, sono posti al centro dell’identità ungherese, che si vuole difendere da  “contaminazioni ideologiche occidentaliste o dall’islamizzazione”. 

Durante gli anni del comunismo la Chiesa cattolica in Ungheria aveva trovato un modus vivendi con il Governo comunista, pur faticoso e limitante. Il Papa polacco Giovanni Paolo II non ne era entusiasta. I cattolicesimi dell’Est Europa, infatti, sono molto diversi tra di loro.

Come scrive Andrea Riccardi in un editoriale di “Avvenire”, “l’Ungheria non è una nazione piccola o periferica, come l’Albania o la Bulgaria, Paesi che Bergoglio ha scelto di visitare invece delle grandi nazioni occidentali. Tuttavia, essa è un Paese particolare per le sue scelte politiche. Francesco è critico nei confronti della politica verso i migranti e i rifugiati condotta dall’attuale premier Orbán. 

D’altra parte, ci sono aspetti che interessano il Pontefice, come la difesa della famiglia e l’impegno per superare la crisi demografica. Inoltre, l’Ungheria è l’unico Paese dell’Unione a tenere aperto un canale con la Russia di Putin e ha buoni rapporti con la Cina”.

Da Budapest, “città di storia, città di ponti, città di santi”, Papa Francesco ha utilizzato quest’allegoria per lanciare un chiaro appello all’Ungheria e al Vecchio Continente per “ritrovare l’anima europea”.

Alludendo all’Ucraina, il tema chiave non poteva essere che la pace minacciata da una sorta di “infantilismo bellico”, e dai “ruggiti dei nazionalismi”, con allusione anche all’Ungheria stessa.
Allo stesso tempo, usando parole forti su temi eticamente sensibili come l’aborto e la cultura gender, papa Francesco ha esortato l’Europa a non essere “ostaggio” da una parte di “populismi autoreferenziali” e dall’altra di un “sovranazionalismo astratto” invitando ad affrontare “insieme, comunitariamente” il fenomeno migratorio. 

Alla diffidenza ungherese verso l’Europa, il Papa ha risposto dicendo che “in questo frangente storico l’Europa è fondamentale”.

Il Papa elogia la collaborazione tra Stato e Chiesa in Ungheria, ma da una parte esorta a “non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere”, dall’altra auspica “una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso”. 

Francesco afferma che ci sono due tentazioni da cui sempre dobbiamo guardarci come Chiesa: “Una lettura catastrofista della storia presente, che si nutre del disfattismo di chi ripete che tutto è perduto, che non ci sono più i valori di una volta, che non si sa dove andremo a finire”. 
E poi il rischio “della lettura ingenua del proprio tempo, che invece si fonda sulla comodità del conformismo e ci fa credere che in fondo vada tutto bene, che il mondo ormai è cambiato e bisogna adeguarsi”. 

Nel suo discorso osserva che anche in Ungheria, dove la tradizione di fede rimane ben radicata, si assiste alla diffusione del secolarismo e a quanto lo accompagna: minaccia all’integrità e alla bellezza della famiglia, materialismo e edonismo

Di fronte a questa realtà, ammonisce il Pontefice, “la tentazione può essere quella di irrigidirsi, di chiudersi e assumere un atteggiamento da combattenti”.

Così non va, spiega. 

Infatti, tali realtà “possono rappresentare delle opportunità per noi cristiani, perché stimolano la fede e l’approfondimento di alcuni temi, invitano a chiederci in che modo queste sfide possano entrare in dialogo con il Vangelo, a cercare vie, strumenti e linguaggi nuovi”. 

Per Francesco c’è bisogno di avviare una riflessione ecclesiale – sinodale, da fare tutti insieme – per aggiornare la vita pastorale, senza accontentarsi di ripetere il passato.
 Il Papa invita a “non essere rigidi”, ma ad «avere sguardi e approcci misericordiosi e compassionevoli, stando vicini ai cristiani perseguitati, ai migranti che cercano ospitalità, alle persone di altre etnie, a chiunque si trovi nel bisogno».