Il fuoco che brucia il prosieguo del governo Netanyahu

Gli incendi devastanti che hanno colpito le colline di Gerusalemme nell’ultima settimana di aprile non hanno provocato vittime, ma hanno messo a nudo il disastro gestionale di un governo israeliano guidato dall’improvvisazione, dall’estremismo e da una cultura politica che ha sostituito la competenza con la lealtà politica. La mancata prevenzione, le reazioni tardive e le dichiarazioni inconcludenti hanno trasformato un’emergenza ambientale in una metafora della crisi strutturale di Israele.

Il fuoco che ha avvolto le foreste nei pressi di Beit Meir è stato domato solo dopo due giorni di battaglia serrata da parte dei pompieri, affaticati da anni di tagli al bilancio e da una cronica carenza di personale. Le fiamme, che hanno rischiato di raggiungere aree densamente abitate, non sono state una sorpresa: l’allerta era stata lanciata dai meteorologi con giorni di anticipo. Eppure, la macchina statale – fatta eccezione per l’Autorità nazionale dei Vigili del Fuoco – è rimasta paralizzata.

Questa inerzia non è casuale. È il frutto di una lunga stagione di smantellamento istituzionale, iniziata con il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu nel 2022, grazie a un’alleanza fragile e ideologicamente radicalizzata. La nomina di Itamar Ben-Gvir a ministro della Sicurezza nazionale – simbolo dell’estremismo di destra israeliano – è l’emblema di un sistema in cui le cariche non si assegnano più per competenza, ma per fedeltà politica.

Lo stesso Ben-Gvir ha bloccato l’acquisto di elicotteri Blackhawk per la flotta antincendio, un progetto iniziato durante il governo Bennett-Lapid. Le sue motivazioni? Accuse di “clientelismo” contro i predecessori. Poi, di fronte all’evidenza del disastro, ha promesso interventi rapidi. Promesse a telecamere accese, ma senza elicotteri né strategia.

La foto del ministro accanto a Netanyahu e ad altri membri del governo nel centro di comando ha condensato il paradosso: un potere formalmente presente, ma sostanzialmente assente. Una leadership più preoccupata dell’immagine che del contenuto. La disfunzione è ormai sistemica, il decisionismo uno spettacolo, e i cittadini – come accaduto durante gli incendi – devono contare più sulla fortuna che sull’efficienza delle istituzioni.

Ma la situazione è persino più grave. Invece di fare autocritica, il governo ha immediatamente innescato la solita macchina del capro espiatorio: insinuazioni sul coinvolgimento di cittadini arabi, accuse infondate rilanciate da canali social legati alla destra radicale, perfino il figlio del premier, Yair Netanyahu, ha parlato di complotti orchestrati dalla “sinistra di Kaplan”, alludendo ai manifestanti antigovernativi.

La delegittimazione dell’opposizione interna e il sospetto permanente sono diventati la norma. L’establishment usa l’emergenza per alimentare la polarizzazione. E mentre le colline bruciano, le divisioni sociali e politiche raggiungono livelli sempre più tossici.

Il fallimento gestionale degli incendi si è sommato ad altre umiliazioni: il caos nella cerimonia della torcia per Yom Ha’atzmaut, evacuazioni di studi televisivi, la trasmissione di una prova registrata invece dell’evento in diretta, la retorica vacua e le lodi autocelebrative di Netanyahu. Il tutto, mentre i familiari degli ostaggi ancora in mano a Hamas osservano, impotenti, un Paese più attento all’apparenza che alla sostanza.

Come ha scritto Amos Harel su Haaretz, «quando nomini clown, aspettati un circo». Ma a Gerusalemme, il circo brucia. E non si vedono né domatori né vigili del fuoco all’altezza della situazione. Il fuoco, stavolta, ha illuminato più che distrutto. Ha mostrato un sistema politico in stato avanzato di decomposizione. La questione non è solo ecologica, ma democratica.

Se Israele vuole evitare che le prossime fiamme siano quelle della dissoluzione civile, dovrà rispondere non solo con nuove dotazioni antincendio, ma con un cambio di rotta politico radicale. Altrimenti, ogni nuova crisi – sanitaria, ambientale, militare – non farà che accelerare la fine di una democrazia che continua a proclamarsi tale, ma che ha smesso da tempo di proteggere tutti i suoi cittadini.