Esplorare la questione migratoria contemporanea come crisi epocale e rivelazione antropologica, a partire dai numeri 37-41 dell’enciclica Fratelli Tutti. Denunciando la disumanizzazione sistemica e le logiche escludenti che regolano le frontiere globali, si propone un ripensamento radicale della governance, fondato sul principio non negoziabile della dignità umana. La migrazione vi è interpretata come evento teologico-politico, sfida all’immaginario giuridico e morale dominante, e occasione propizia per rigenerare un umanesimo realmente inclusivo. Alla logica della paura si contrappone l’etica dell’incontro, alla chiusura securitaria la diplomazia delle culture, alla neutralizzazione dell’altro la valorizzazione della sua irriducibile umanità. Il riconoscimento della vulnerabilità come spazio generativo diviene così fondamento di una nuova civiltà dell’ospitalità, in cui nessuno sia straniero e tutti siano accolti come protagonisti di un mondo riconciliato.
Nel cuore delle contraddizioni che attraversano il nostro tempo, la questione migratoria si impone come una delle sfide più urgenti e rivelatrici della condizione umana globale. Lungi dall’essere un fenomeno marginale, essa rappresenta uno specchio in cui si riflettono le fratture profonde di un ordine internazionale privo di coerenza etica, incapace di riconoscere e tutelare l’inalienabile dignità della persona umana. Nei numeri 37-41 dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco tratteggia con vigorosa lucidità il volto drammatico delle migrazioni contemporanee, denunciando con chiarezza l’indifferenza sistemica, la logica dell’esclusione, la complicità silente delle istituzioni e delle coscienze. La persona migrante diviene emblema della crisi della civiltà globale, della perdita del senso di fraternità e della riduzione della vita a problema logistico o a minaccia da neutralizzare. Le frontiere, concepite originariamente come spazi di relazione tra popoli, sono divenute confini armati, dispositivi di esclusione, luoghi simbolici della negazione. Ciò che viene respinto, più ancora dei corpi, è l’umanità che essi incarnano: un’umanità in cammino, vulnerabile e perciò stesso rivelatrice. Il migrante non è solo un altro da accogliere o da respingere, ma una domanda radicale posta all’architettura morale del mondo, un appello a ricostruire i fondamenti della convivenza. In questo senso, l’emergenza migratoria non interpella soltanto la politica degli Stati, ma la coscienza dell’umanità, esigendo un salto qualitativo nell’immaginario etico e giuridico della nostra epoca. Ridurre il fenomeno del calcolo economico o della dinamica securitaria significa eludere la profondità del problema: la migrazione è evento teologico-politico, luogo di rivelazione e di crisi, spazio di discernimento e di scelta. Occorre, allora, decolonizzare lo sguardo e restituire centralità alla dignità. Come ricorda la migliore dottrina, la dignità non è un concetto astratto, ma un principio operativo che deve orientare ogni scelta di governance. Essa implica il riconoscimento dell’altro non come tollerato, ma come portatore di diritti originari, inscritti nella sua umanità e non concessi da appartenenze geopolitiche. La governance umana delle migrazioni non può prescindere da questa visione, pena la riduzione dell’intera politica a esercizio amministrativo del disumano. Le politiche migratorie ispirate alla logica del rifiuto, della paura o della convenienza selettiva tradiscono la vocazione propria della politica come cura del bene comune e minano alla radice i fondamenti della democrazia.
Rispondere alle sfide globali con intelligenza integrale
A essere in gioco non è solo il destino di milioni di esseri umani, ma la qualità etica delle nostre società, la capacità di rispondere alle sfide globali con intelligenza integrale e spirito di fraternità. L’ecologia integrale, come delineata nella Laudato Si’, suggerisce un paradigma in cui le migrazioni non sono lette come anomalie da contenere, bensì come segni dei tempi da interpretare. In questa prospettiva, il diritto a non emigrare è complementare al diritto a emigrare: entrambi si fondano sull’urgenza di costruire società giuste, in cui nessuno sia costretto a partire, ma in cui chi sceglie di farlo non venga perciò criminalizzato. Il riconoscimento della dignità impone un ripensamento profondo della cittadinanza, che non può essere ridotta a statuto burocratico, ma deve farsi accesso concreto alla partecipazione politica, culturale ed economica. In tal senso, la persona migrante non è un oggetto di assistenza, ma un soggetto politico, protagonista della propria liberazione, artefice di nuovi legami sociali. La paura dell’altro, pur comprensibile sul piano emotivo, non può costituire criterio di orientamento per le scelte collettive. Quando la politica si piega all’istinto, abdica alla ragione; quando si alimenta il risentimento, si indebolisce il tessuto della convivenza. La dignità è sempre inclusiva, mai selettiva. È qui che si misura la distanza tra un umanesimo retorico e un umanesimo vissuto, tra la dichiarazione dei principi e la loro incarnazione concreta. La Chiesa, attraverso la sua azione diplomatica e pastorale, si fa voce profetica contro ogni forma di discriminazione e di esclusione. Essa testimonia che la vera sicurezza nasce dalla giustizia, che la vera pace non si costruisce con i muri, ma con i ponti. L’ospitalità non è debolezza, ma esercizio di civiltà; non è concessione, ma dovere. Nel volto di ogni migrante si rifrange il volto stesso di Cristo, e nel cammino dei popoli si intravede la storia sacra dell’umanità. La diplomazia delle culture, nella sua forma più alta, non consiste nel negoziato tra interessi, ma nella capacità di generare riconoscimento reciproco, di costruire spazi condivisi, di rendere il pluralismo un orizzonte di convivenza e non una minaccia da neutralizzare. La governance della dignità, se vuole essere tale, deve dunque radicarsi nella pedagogia dell’incontro, nella capacità di coniugare memoria e profezia, concretezza istituzionale e visione escatologica. La sfida migratoria è, in ultima analisi, una sfida antropologica: essa interroga ciò che intendiamo per persona, per comunità, per futuro. Non si tratta solo di organizzare flussi, ma di custodire volti; non solo di tutelare confini, ma di generare appartenenze. In un mondo segnato da crescenti disuguaglianze, da violenze sistemiche e da paure alimentate, solo una governance umana fondata sulla dignità universale può inaugurare una nuova stagione politica, capace di dare risposta alla sete di giustizia e di futuro che attraversa i popoli. Così facendo, non solo si risponde all’urgenza del presente, ma si prepara il terreno per una civiltà dell’incontro, in cui nessuno sia straniero e tutti siano riconosciuti nella loro umanità irripetibile e inviolabile.
La vulnerabilità come luogo politico
Occorre, in tal senso, promuovere un’etica delle frontiere che non abbia come unico criterio la sicurezza, ma che ponga al centro la vulnerabilità come luogo teologico e politico. Solo laddove la fragilità dell’altro viene assunta come elemento costitutivo della nostra stessa umanità, si può dar vita a una cultura dell’accoglienza che non sia episodica ma strutturale. Tale cultura richiede l’educazione all’incontro sin dalla prima infanzia, la costruzione di narrazioni che disattivino la retorica della paura e restituiscano dignità alle biografie migranti, la promozione di politiche culturali capaci di far emergere la ricchezza dell’ibridazione, e non la sua presunta minaccia. In tale prospettiva, l’inclusione non è un’operazione di assimilazione, ma di trasformazione reciproca. Le città stesse, in quanto laboratori quotidiani di pluralismo, possono diventare spazi teologali di riconciliazione e di fraternità concreta, laddove le istituzioni sappiano valorizzare la memoria degli esclusi come fondamento di una nuova cittadinanza. Alla luce di questo orizzonte, la governance della dignità non è semplicemente una riforma delle leggi, ma una metanoia culturale, una conversione dello sguardo che dalla paura conduce alla cura, dall’indifferenza all’ascolto, dal sospetto alla responsabilità condivisa. Una tale trasformazione non può essere imposta, ma va generata con pazienza profetica, con la tenacia mite di chi, nel silenzio, tesse la pace. Essa interpella le Chiese, le Università, i Parlamenti, ma anche le famiglie, le scuole, le comunità locali, chiamate a diventare grembi di una nuova umanità. E se, come scrive Francesco, le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo, allora il modo in cui le accoglieremo definirà non solo la nostra politica, ma la nostra civiltà.