Per il cineforum riservato questa settimana ai nostri studenti è stato scelto un film drammatico americano del 1999 diretto da Michael Mann, tratto da una sceneggiatura basata sull’articolo di Vanity Fair di Marie Brenner, dal titolo “L’uomo che sapeva troppo”.

Il biglietto da visita di Insider, oltre alle qualità creative e analitiche di un regista affermato come Michael Mann, che per le sue precedenti realizzazioni come “Heat” e “Gli uomini del Presidente” oserei definire il regista “vate” della società americana, è il suo riferimento a una controversia realmente accaduta.

Si tratta dello scandalo degli anni ‘90 legato all’adulterazione delle sigarette delle compagnie del tabacco statunitensi, al fine di amplificare gli effetti di assuefazione e quindi aumentare le vendite.

Protagonisti dei fatti sono lo scienziato Jeffrey Wigand (Russell Crowe) che, nonostante le minacce, l’abbandono della moglie e il discredito gettatogli addosso, decide comunque di rivelare nello show “60 minuti” coordinato dal giornalista Lowell Bergman (Al Pacino), gli effetti di assuefazione provocati dalla multinazionale di sigarette per la quale lavorava.

Un po’ dramma, un po’ inchiesta, un po’ thriller, il film fa coincidere, quasi in una dialettica vichiana, il verum e il factum nella conoscenza e nell’azione di due uomini.

Da professione e intenti diversi approdano alla ricerca esclusiva del bene comune, credono nella lealtà alla parola data, a prezzo di sacrifici quasi insopportabili e il sorgere di dubbi pesanti come macigni, eppure… il servizio prestato alla società sembra isolarli da essa più che offrire loro un dovuto riconoscimento.

Il viaggio di Mann nell’interiorità dei personaggi è marcato da un uso abbondante di ripresa soggettiva in un’alternanza di passo e velocità nel montaggio, quasi per aiutare lo spettatore a cogliere la tensione emotiva dei protagonisti.

Le pressioni della multinazionale del tabacco sono enormi e si accompagnano a minacce, ma a questo punto interviene oltre al dove e al perché, anche il come fare la verità.

L’operato giornalistico, come la storia, non può, non dev’essere mai giustizialista. La questione emerge di fronte al linciaggio montato ai danni del prof. Wigand. Gli si vuol far perdere la credibilità, distruggendolo come persona.

L’onore ontologico che deriva dal rispetto di ogni persona è messo da parte. Un principio dimenticato dalla stampa è che non si può giudicare in massa. Il cliché, lo stereotipo (framing, agenda setting) costituisce un grave attentato all’intimità personale. Si vuol far di tutto per far passare il testimone scomodo come un paranoico, uno schizzato, una persona inaffidabile.

Se Wigand e Bergman applicano al loro operare principi che diremmo eudemonistici, le società nelle quale sono impiegati, applicano nella loro condotta principi edonistici.

La società del tabacco vuole vendere anche a costo di danni indotti ai fumatori, mentre la CBS News che aveva creato un patto di lettura con il suo pubblico, attraverso la sua credibilità che sembrerebbe super partes, è mossa alla fine da questi stessi principi della società dei consumi.

La confluenza dei risultati è problematica. Da un lato lo scienziato e il giornalista cercano il bene comune, dall’altro le loro rispettive società sono spietate e penalizzano “il giusto”.

Nasce un dilemma, una situazione di conflitto interiore e professionale che investe altri dirigenti e funzionari delle aziende rivelando i diversi punti di vista in gioco. Mike, il collega di Lowell, con un’esperienza di cinquant’anni nell’azienda, teme il discredito e utilizza la massima per la quale la gente ricorda l’ultima cosa che si è fatta e non le molte cose che si sono fatte durante una lunga carriera.

Lowell Bergman pur provenendo dalla scuola di Marcuse, invece, sembra avere più determinazione e libertà e pertanto dovrebbe essere lui, più giovane, l’erede del clima di Woodstock, la persona preoccupata delle sicurezze del benessere.

Il tema della scelta è centrale nel film. Esso fa emergere a sua volta l’indecisione come mancanza sistematica di libertà a causa dei tanti condizionamenti.

Accanto all’indecisione, che forse umanizza i personaggi, irrompe la coscienza. Per gli spettatori apre un orizzonte di attese, un patto di lettura degli eroi, ma sembra anche qualcosa di scontato.

Quando di fronte all’incertezza di testimoniare o meno al tribunale del Mississippi, il prof. Wigand dice: “Cos’è cambiato”, da un lato esprime un senso di amarezza verso l’andamento del mondo, ma dall’altro capisce che qualcosa deve cambiare e a questo si sente interpellato.

Si potrebbe parlare quasi di “spinta metafisica” che va al di là di qualunque logica e di qualunque morale. Avere coscienza è salvarsi dal mondo. Il dibattito tra coscienza e la volontà pubblica di un miglior e più degno modo di abitare il mondo.

Il regista Michael Mann sceglie il mare come scenografia per la sequenza nella quale il dottore Wigand decide di andare in tribunale. Non è una scelta banale, poiché come se capisce dai dialoghi, deve decidere in coscienza, si gioca molto, e sente il peso della responsabilità e la solitudine. Attraverso il mare (immobile e inalterato) si sente legato a tutti quei personaggi che lungo la storia hanno dovuto rischiare la loro vita per difendere la verità. La strada per il tribunale, che passa per un cimitero, ci mette davanti a realtà forti come la morte ed enfatizza l’alto rischio che corre. Una volta in tribunale, quando finalmente fa la sua dichiarazione, rimane solo (la telecamera si ritira un po’ indietro, esemplificando come la fotografia può enfatizzare la messa in scena). Alcuni istanti dopo, però, il sollievo della coscienza, la gioia interiore e la leggerezza vengono rappresentati da quei momenti condivisi con il giornalista all’aperto, tra risate, la brezza e una sottile pioggia (forse l’acqua del mare) che bagna l’erba. Tornando a casa, però, il suo volto rallegrato si alterna a gesti di preoccupazione di fronte alla visione di una macchina che brucia e la tensione di chi si sente vigilato (nel semaforo), preannuncio di minacce e eventi che stanno per accadere.

Al Pacino, da parte sua, incarna lo spirito dell’uomo che rimane in riflessione con inquietudine e indaga non può riposarsi in se stesso e vive la verità come quello che manca. Dalla spiaggia davanti la sua casa, così affascinante, romantica, tranquillizzante, pronta a dare sollievo a chiunque accetti le regole del proprio mestiere, , percorre nervosamente avanti e dietro col cellulare in mano rifiutando quel facile approdo al quale è stato mandato dalla CBS in “vacanza forzata” .

L’essere umano non può dedurre speculativamente la sua vita, deve deciderla.

L’autodeterminazione si esercita come un fattore di rischio, diversamente una sicurezza assoluta nel piano dell’azione pratica è una pretesa neurotica, scrupolosa o morbosa di sicurezza.

La moglie di Wigand-Crowe invece, è abituata al benessere e ad una vita banale e senza problemi, per questo non reggerà alla tensione provocata dalla decisione del marito e lo lascerà.

Il peso delle proprie azioni, e le conseguenze di queste, sono il tema portante del film; chi riesce a vivere sopportando, chi si vende al più forte, chi lotta contro i mulini a vento; ma queste persone, che scelgono l’ultima strada, la più avversa, alla fine, come il testimone del nostro film, sono le uniche che possono guardare i loro figli negli occhi (scena verso la fine del film) consapevoli di aver fatto qualcosa, di aver scagliato un sasso in quest’oceano terso che è la nostra società, di aver contribuito se pur in minima parte a combattere il sistema vigente.

Per vivere bisogna uscire allo scoperto, sottoponendosi alla pubblica opinione, ormai ridotta ad un’opinione di massa che non riflette, ma sceglie il modello in cui credere, perché non possiede più il tempo per pensare, ed è ben felice che qualcuno lo faccia per lei (scena di gente comune che assiste alla televisione quando, ormai l’intervista è pubblicata).

I nostri personaggi hanno scelto la theoresis?

Il saper fare la verità diventa, secondo la classica considerazione di Pareyson, un “dare di sé; poco importa il risultato negativo”.

Il posso e il voglio sono più forti dei limiti imposti dalla tecnostruttura delle multinazionali.

Il dilemma finale della CBS mostra tutti i limiti della tecnostruttura. La credibilità di “60 minuti” si fonda sulla verità, ma più la testimonianza del dr. Wigand è vera, più la ragion d’essere di questo giornalismo investigativo è messa in causa, ricattata dai poteri finanziari. “Una virtù si genera e per mezzo delle stesse azioni per le quali si genera, anche si distrugge”, proprio come ogni arte: dal suonare la cetra che derivano i buoni e i cattivi suonatori.

Alla fine del film prevarrà la scelta del rigore e del coraggio professionale, Lowell sarà stimato e riabilitato, ma lui stesso si licenzierà perché qualche meccanismo si è rotto in lui; è cosciente che non potrà più dare garanzie di incolumità materiale e morale ai suoi informatori.

La professione del giornalista infatti, deve essere intesa come una missione d’informazione e di formazione dell’opinione pubblica, alla cui origine sta un impulso fortemente interiore, che potremmo chiamare vocazione.

Questa missione, cioè funzione qualificata, mentre richiede dal soggetto un impegno personale che mobilita le sue facoltà migliori, esige, per sua natura, di essere esercitata al riparo di ogni arbitrio e di essere canalizzata nell’alveolo di quel ministerium, di un servizio – come si dice in gergo anche di alcune prestazioni giornalistiche – incessantemente ancorato ai criteri della veridicità, dell’oggettività e della chiarezza.