Una battaglia culturale travestita da giustizia sociale
Nel giorno in cui la Corte Suprema del Regno Unito ha riaffermato, con voce unanime, che la parola “donna” significa “donna biologica”, non possiamo limitarci a leggere la notizia come una fredda sentenza giuridica. In gioco non c’è soltanto la terminologia di un atto normativo: c’è l’idea stessa di umanità, di corporeità e di verità antropologica.
Il dibattito – non nuovo, ma sempre più polarizzato – si è acceso attorno alla richiesta, legittima in sé, di garantire pari dignità e protezione a tutte le persone, comprese quelle che vivono la difficile condizione della disforia di genere. Tuttavia, ciò che è accaduto in Scozia e poi alla Corte Suprema britannica va ben oltre la compassione e la protezione delle minoranze. Qui si è giocata – e si giocherà ancora – una partita tra cultura e natura, tra identità percepita e realtà biologica.
Il cuore del problema: la vittoria dell’identità psicologica sul sesso biologico
Siamo davanti al frutto maturo – e amaro – di una lunga stagione culturale che ha progressivamente sostituito il primato del dato biologico con quello dell’autopercezione. Non è forse questa la più eclatante vittoria dell’“io sento” sull’“io sono”? L’identità non è più ciò che riceviamo, ma ciò che decidiamo, anche contro l’evidenza del corpo.
Tutto questo è stato reso possibile da una rivoluzione semantica, giuridica e morale che ha trovato terreno fertile nel relativismo e nell’individualismo radicale. Eppure, paradossalmente, a spingere per un ritorno al riconoscimento del sesso biologico non è stata la teologia, né la scienza medica o la filosofia realista, bensì un gruppo di attiviste anche femministe preoccupate che la lotta per le cosiddette quote rosa – ossia per vantaggi lavorativi, assistenziali e politici riservati alle donne – venisse svuotata dall’inclusione di uomini che, attraverso la transizione, si autoidentificavano come donne.
È un paradosso che ci interpella: molte donne, dopo avere rivendicato uno spazio privilegiato in nome della differenza sessuale, si sono accorte che quella differenza stava per essere cancellata proprio da chi, biologicamente maschio, aveva assunto tratti morfologici femminili. Non per ideologia, come fece con coerenza e convinzione J.K. Rowling, ma per interesse – sebbene legittimo – legato al welfare e alle opportunità di carriera.
Dal disturbo alla croce: la dignità di chi soffre la disforia
In tutto questo, però, non possiamo permetterci lo sguardo sprezzante o riduttivo verso chi vive la disforia di genere. Un tempo, la medicina la classificava come un disturbo psichiatrico. Oggi, la cultura la eleva a diritto. Ma né l’uno né l’altro approccio colgono appieno il dramma esistenziale di chi abita un conflitto tra corpo e psiche. È una croce, e come ogni croce va accolta, accompagnata e redenta. La Chiesa non si sottrae a questa missione. Ma nel fare ciò, non può tradire la verità dell’uomo, né ridurre la realtà corporea a un’opzione fluida.
L’ideologia gender e la confusione dei ruoli
Il Gender Representation on Public Boards Act, al centro del contenzioso, affermava che chi “vive come donna” o intende farlo debba contare ai fini delle quote di genere. Questo criterio, fondato su una mera intenzionalità soggettiva, svuota ogni radice antropologica. La Corte Suprema ha risposto con lucidità e coraggio: i termini “donna” e “sesso” nell’Equality Act si riferiscono alla realtà biologica, non alla fiction legale.
In questo modo, si pone un argine al delirio normativo che minaccia di compromettere spazi protetti – come i centri antiviolenza, le carceri femminili, gli sport femminili – e di rendere inapplicabili le politiche di parità.
Una società giusta non può costruirsi sulla confusione
Lo ripeto con chiarezza: una società giusta non si costruisce sull’eliminazione delle differenze, ma sul loro riconoscimento ordinato. Non si difendono i diritti delle minoranze sacrificando la verità sull’essere umano. Non si costruisce il bene comune alimentando conflitti tra categorie, creando nuove ingiustizie nel nome della riparazione di quelle passate.
La dignità delle persone transgender va difesa, sì, ma non a scapito della verità e della giustizia. Il rispetto delle persone non può diventare censura della realtà.
Una parola ai cattolici e agli educatori
Ai genitori, agli educatori, ai responsabili politici cattolici: non abbiate paura di dire ciò che è vero, anche se oggi impopolare. Una donna è un essere umano di sesso femminile, e un uomo è un essere umano di sesso maschile. Accogliere ogni persona non significa confondere tutto. La compassione non richiede la negazione del dato biologico, ma la sua integrazione nella verità dell’amore.
La verità che libera
Gesù ci ha detto che la verità ci farà liberi (cf. Gv 8,32). Oggi più che mai, questa libertà passa per il coraggio di difendere la realtà del corpo, la bellezza della differenza sessuale, la dignità delle donne, e anche la sofferenza silenziosa di chi lotta per abitare la propria identità. Ma tutto questo senza manipolazioni ideologiche, senza battaglie strumentali, e soprattutto senza tradire la verità sull’uomo, creato da Dio, maschio e femmina, a sua immagine (cf. Gen 1,27).
Ringrazio per tutte queste riflessioni in linea con la morale cattolica.
Piacevole sorpresa aver trovato quest’articolo dopo la segnalazione di alert di un nuovo post. Questi temi rientrano ormai anche nelle discussioni da bar e potrebbero presto essere oggetto di dibattito anche nel nostro Paese. Grazie per questo sguardo lucido, rapido e competente nel rispetto della persona.
È un problema serio. Peccato che i presupposti siano stati tutt’altro che morali ma materiali pecuniari.