«Perché una giornalista australiana deve essere ferita per raccontare cosa accade negli Stati Uniti?»
Questa domanda – che oggi scuote le redazioni di mezzo mondo – riguarda Lauren Tomasi, reporter ferita domenica sera durante i disordini a Los Angeles. La sua colpa? Documentare gli eventi. La sua ferita? Non solo fisica, ma simbolica. È l’ennesima lesione inferta alla libertà di stampa e al diritto di protesta, in un’America dove la democrazia viene trattata come una variabile dipendente dalla propaganda.
Un dispiegamento “intenzionalmente infiammatorio”
La presenza della Guardia Nazionale sulle strade di Los Angeles non era stata richiesta né dal governatore della California Gavin Newsom, né dalla sindaca della città Karen Bass. Anzi, era stata esplicitamente sconsigliata. Eppure, il presidente Trump ha scelto di federalizzare 2.000 soldati, invocando una disposizione del Codice sui Servizi Armati, raramente usata, che prevede l’intervento se esiste una “ribellione contro l’autorità del governo degli Stati Uniti”.
Ma nessuna ribellione era in corso. Le proteste contro le incursioni federali in materia di immigrazione erano, per lo più, contenute e gestibili. Il governatore ha definito il dispiegamento “una grave violazione della sovranità statale”. I precedenti? Dobbiamo risalire al 1963, quando Kennedy annullò la volontà del governatore razzista dell’Alabama per desegregare un’università. Ma qui, al contrario, non si difende alcun diritto costituzionale: si impone la forza per intimidire il dissenso.
Il linguaggio dell’insurrezione: parole come benzina
Trump ha parlato su Truth Social di “invasione dei migranti” e “rivolte”, chiedendo di “risolvere con BOTTE”. Il vicepresidente JD Vance ha insinuato che l’intera crisi sia una “invasione”. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha minacciato la mobilitazione dei marine. Una sceneggiatura da guerra civile, scritta a tavolino per alimentare paura, giustificare interventi e squalificare chi dissente.
Nel 2020, Trump fu bloccato da Mark Esper e dal Gen. Mark Milley, quando voleva usare l’esercito attivo contro i manifestanti di Black Lives Matter. Oggi, invece, ha a disposizione collaboratori privi di freni: Pam Bondi alla Giustizia, Hegseth alla Difesa, Kristi Noem alla Sicurezza interna. Tutti pronti a “difendere” un’America che non è minacciata, se non dal linguaggio iperbolico della propria amministrazione.
Una stampa libera, sotto tiro
Lauren Tomasi non è una militante, né un’attivista. È una testimone. Il suo ferimento è l’immagine brutale di un ordine pubblico non più fondato sulla protezione, ma sulla repressione. Come può essere giustificato un tale livello di militarizzazione, se i reporter stessi diventano bersagli collaterali?
Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno scalato classifiche internazionali non per progresso, ma per declino della libertà di stampa e della stabilità democratica. Il caso di Los Angeles lo conferma: non si tratta di garantire ordine, ma di affermare potere.
Una strategia della tensione “a stelle e strisce”
Tutto questo accade mentre la Casa Bianca valuta la sospensione di fondi federali alla California e la California minaccia di trattenere tasse. Un conflitto istituzionale e ideologico, che usa le città e i cittadini come campo di battaglia simbolico. Non siamo (ancora) in una crisi costituzionale formale. Ma, come ha scritto uno studioso, ogni giorno porta nuovi segnali che l’America è sempre meno stabile.
E chi ci rimette? I civili. I manifestanti pacifici. I giornalisti feriti. La legge ridotta a facciata. La verità compressa tra la paura e il manganello.
Los Angeles non era in guerra. Ma l’America trumpiana vuole che lo sembri. Perché ogni guerra ha bisogno di un nemico. E se non c’è, lo si costruisce: con parole, ordini esecutivi, provocazioni e truppe nelle strade.
Chi salverà l’America dalla caricatura di sé stessa?