A 43 anni dalla strage di Ustica rimane ancora fitto il mistero sulle vere ragioni dell’inabissamento del DC 9 Itavia nel Tirreno meridionale con i suoi 81 occupanti tra passeggeri ed equipaggio. Bomba, missile, battaglia aerea… si è detto di tutto e di più. Lo Stato ha pagato i familiari delle vittime dopo una lunga battaglia giudiziaria, le cui conclusioni, tuttavia, potrebbero non corrispondere alla verità storica.

Era la sera del 27 giugno 1980 quando il volo Bologna – Palermo scomparve dal controllo radar e radio.

Con i mezzi e le tecnologie di quegli anni si avviò la macchina dei soccorsi che partì solo alle prime luci dell’alba del giorno successivo.

All’epoca la Guerra Fredda rendeva il Mediterraneo un teatro di dissuasione militare tra i due blocchi e la Libia filorussa di Gheddafi, ma socia in affari con l’Italia della NATO.

Lo spazio aereo era affollato spesso da aerei militari mentre nei mari si svolgevano muscolose esercitazioni di navi e sottomarini.

L’allora tenente di vascello Sergio Bonifacio, autore di un recente ed interessante saggio su quell’evento, pilotava un sofisticato aereo ricognitore Breguet Atlantic capace di individuare persino un periscopio a pelo di acqua.

Fu il primo ad individuare con il suo equipaggio i corpi delle vittime con alcuni effetti personali e resti dell’aereo dopo la segnalazione di una chiazza di cherosene grazie ad un elicottero della nostra Marina egualmente impegnato nella ricerca.

L’ufficiale pilota Bonifacio, giunto sul posto segnalato dai colleghi elicotteristi alle 07:28, avvistò una riga nera Immersa a bassa profondità.

Alle 09.45 circa avvistò i primi cadaveri conteggiandone una quarantina. 

L’ufficiale pilota venne colpito particolarmente dalla posizione da loro mantenuta; molti, gambe e braccia penzoloni, altri in posizione impossibile da mantenere in mare e bambini per lo più in posizione fetale.

Poiché già da sotto i 100 metri i cadaveri non risalgono, ritenne che l’aereo o parte di esso si trovasse a qualche decina di metri al di sotto della superficie del mare.

A conferma della tesi il materiale emerso era tutto concentrato in un punto e non sparso in un’area estesa tale da dimostrare un evento in quota.

In un mare sgombro da detriti, l’affioramento sta ad indicare un ammaraggio ed una implosione di una parte del velivolo ancora a tenuta. 

La presenza dei cadaveri identificava tale parte come l’abitacolo passeggeri. 

Nelle prime ore del 28 giugno partirono da Napoli le navi della Marina militare Orsa e Alpino e la motovedetta Fiorillo. 

Alle 14.49 l’incrociatore Doria ricevette l’ordine di assumere il comando tattico della ricerca. Intorno alle 16.00 le navi della Marina mercantile Buccaneer, Carducci, Clodia, Freccia Rossa, Nomentana e Bannock giunsero nella zona del sinistro e iniziarono la «ricerca a rastrello» su una fascia larga 17 miglia.

Recuperati i cadaveri, queste furono le conclusioni: «I passeggeri riportarono lesioni polmonari iniziali da decompressione per depressurizzazione molto rapida dell’abitacolo; la morte fu determinata da precipitazione (“grandi traumatismi contusivi”); si esclude l’eventualità dell’annegamento; sui cadaveri esaminati non sono state rinvenute tracce di ustioni, né di sostanze tossiche». 

Si affermava inoltre nella relazione che una serie di considerazioni rendevano «scettici sulla possibilità che la infissione di pochi, piccoli corpi estranei radio opachi su un numero limitato di salme sia dipesa da esplosione da ordigno». 

Con l’autopsia sulle salme recuperate, si è evidenziato mancanza di CO e di HCN nei polmoni e nel sangue con presenza di poche la lesioni esterne.  (Relazione riassuntiva sugli esami praticati sulle salme dei passeggeri del DC9 Itavia – Albano-Stassi, 30.12.80).

È lecito presupporre che l’aereo sia ammarato praticamente integro nella fusoliera dell’abitacolo passeggeri, sia inabissato lentamente, e raggiunta una certa profondità, sia imploso creando segnali come quelli di un missile sul lato sinistro, vicino all’accesso anteriore della cabina passeggeri, e quello della bomba, in coda, dovuto al colpo d’ariete generatosi all’interno.

Durante l’ammaraggio il carico dei bagagli si può essere fortemente ammassato verso prua e potrebbe aver ostruito o quasi qualche dump valves.  

Una differenza di dieci gradi di temperatura dell’acqua tra la superficie e la quota di implosione, per il maggior peso specifico, fornisce una spinta positiva superiore ai 2.000 kg. 

Va messo nel conto tutto il volume interno del velivolo, anche se allagato, perché da acqua calda della superficie. Nell’ulteriore discesa la pressione interna, non pareggiata all’esterna, ha fatto implodere il velivolo.

Ogni cadavere era segnalato da un fumogeno e questo per rendere più semplice il ritrovamento da parte delle scialuppe messe a mare dalle Unità navali impegnate nei recuperi. 

I fumogeni (fumo-luce) sono fosforo e l’attivazione avviene per carica esplosiva. 

Dalle scatole nere recuperate risulta che Il velivolo interruppe i collegamenti radio, il voice recorder si fermò alla parola … “guà…”, le maschere dell’ossigeno non uscirono dagli alloggiamenti.  

Questi apparati sono asserviti al circuito batterie che sul DC9 sono due in serie e forniscono una corrente DC di 28 volts. È il circuito di emergenza, quello che, quando i motori si fermano e l’APU (Ausiliary Power Unit) è spenta, continua a fornire energia. 

Quindi è strano che abbiano smesso di funzionare, salvo che l’esplosione non sia avvenuta nel locale dove sono contenute le batterie.          

Il 1° agosto 1990, al ritorno da Roma su un velivolo DC9 ATI, il T.V. pilota Sergio Bonifacio ricorda che parlò con un tecnico di bordo e gli espose i suoi dubbi circa un’avaria derivante dalle batterie. 

All’atterraggio ad Elmas il collega civile gli fece vedere il locale in cui sono contenute le batterie: il locale elettro elettronico. 

Si trova sotto la cabina di pilotaggio dietro il ruotino anteriore. Un locale stretto, accessibile attraverso un passo d’uomo, nel quale è contenuta tutta la parte elettro elettro elettronica del velivolo ed è in comunicazione con il bagagliaio anteriore.

L’esplosione doveva aver avuto piccole dimensioni se il danno prodotto non aveva leso i tiranti dei comandi di volo, sul soffitto del locale, tale da impedire l’ammaraggio! 

Il T. V. Bonifacio ricordò precedenti casi di scoppio di batterie, almeno tre volte nella sua carriera di pilota.

Il velivolo si trovò quindi a dover ammarare. L’operatore radar di Fiumicino vide l’eco radar dividersi in due: la prima, la risposta radar del materiale fuoriuscito dal velivolo (stessa lettura delle chaff che i caccia sganciano per eludere i missili a loro destinati) la seconda, quella del corpo dell’aeromobile in accostata verso Napoli.

La salma di un giovane che era un carabiniere, venne raccolta con delle caratteristiche particolari. 

“Vestiva un jeans ed una camicia dalle maniche lunghe; quella di sinistra era strappata e legata sotto il ginocchio destro come fosse un laccio emostatico”. 

Al giovane mancava il piede destro e venne ripescato con la pelle che non manifestava una lunga permanenza in acqua e sembrava morto da poco. 

Che spiegazione si può dare ad un simile ritrovamento? Se una persona è sopravvissuta all’ammaraggio e si cura, prima di morire avrà trovato il tempo di annegare? 

A meno che non sia morto istantaneamente, all’implosione.

Venne raccolta la salma di una giovane madre con il figlio stretto tra le braccia in rigidità cadaverica. Accettando pure che la madre sia sopravvissuta alla caduta dell’aereo, che di notte nel Tirreno trovi il corpo del figlio morto o ferito, certamente alla sua morte l’abbraccio si sarebbe allentato ed i due corpi sarebbero stati raccolti separati. 

Anche in questo caso la madre sarebbe annegata. 

Non si è pensato che la rigidità sia intervenuta nella bolla d’aria dentro il velivolo. 

Da anni, quando si parla di Ustica viene pubblicata la foto di quella bambina, pancia in su con le manine ed un ginocchio fuori dall’acqua. 

Quella foto dice: non sono morta in mare

Se la morte fosse avvenuta in mare il corpo non avrebbe mai potuto mantenere quella posizione. 

Per essere stato fotografato in quella posizione, il corpo è entrato in rigidità cadaverica in un ambiente asciutto ed espulso in mare successivamente.

La ricostruzione dell’evento dell’ufficiale pilota Bonifacio, il DC9 I-TIGI, livellato a 8.000 mt. ha una esplosione nel locale elettro elettronico attribuibile ad una batteria o ad un qualsiasi altro evento, si apre una falla che per la velocità dell’aereo produce altri danni nel locale. 

Si ha la decompressione della cabina ed il materiale espulso viene visto al radar. 

Tale decompressione non dovette essere rilevante in quanto l’aria cabina aveva per sfogo la sezione della dump valve del bagagliaio anteriore che, per contro, dallo squarcio prodotto nella fusoliera era investita dall’aria esterna per la velocità del velivolo. 

Non vi sono esperienze di mantenimento di coscienza a quella quota, in assenza di ossigeno, se non fosse così. Il Comandante tolse la potenza e cabrò per ridurre la velocità a 140 nodi, quella della discesa d’emergenza, e limitare i danni alla fusoliera. 

Si legge in qualche perizia più recente, che il velivolo guadagnò da 1.000 a 3.000 ft. indice che era ancora governabile e che i piloti erano in condizioni di farlo. 

Il pilota dell’ITAVIA effettuò la procedura prevista nel caso di decompressione: virata a destra e muso 30° a picchiare.

 Nell’iniziare la discesa le turbine si arrestarono e la mancanza di energia elettrica ne impedì il riavvio.  

Con una virata a sinistra prese tempestivamente la decisione di avvicinarsi a Napoli.

 In un minuto percorse 7 km. perdendo 5.000 ft con il vento in coda di 105 kts. 

Ipotizzando costante la discesa, per eccesso, la quota gli consente una quarantina di chilometri di planata ma l’ammaraggio o l’atterraggio vanno fatti controvento (c’era vento di maestrale 10-15 nodi) pertanto ha dovuto invertire la rotta prima di ammarare, ciò gli ha offerto condizioni di visibilità migliori (al tramonto si vede meglio l’orizzonte verso Ovest). Erano le 21.10 – 21.15. 

Ammarò, scivolò sul mare per qualche centinaio di metri e si fermò. 

Imbarcò acqua dalla falla del locale elettro elettronico che allagò il bagagliaio anteriore, il che gli dette un assetto a picchiare, contrariamente a quanto sarebbe successo a velivolo intero, perché probabilmente, su un rimbalzo perse un’ala ed un motore; forse gli impennaggi di coda. 

A bordo i passeggeri subirono una forte decelerazione ed essendo trattenuti dalle cinture di sicurezza subirono le profonde lacerazioni al ventre. 

Erano tutti senza scarpe come se fosse stato dato l’ordine di prepararsi ad abbandonare il velivolo in acqua.

Che alcune persone siano sopravvissute all’ammarraggio lo si desume da come sono state raccolte due salme: quella del giovane con l’arto fasciato e quello della madre con il bambino in braccio. 

Il velivolo imbarcò acqua ed iniziò ad affondare.  

La pressione fece si che l’acqua avesse un’energia enorme.

Essa comprime la bolla d’aria agendo all’interno dell’abitacolo come una bomba e lo riduce in pezzi. 

Le deformazioni prodotte nella parte posteriore hanno infatti fatto supporre l’esplosione di una bomba nella toilette.

 In questa fase sono stati prodotti gli effetti sui passeggeri attribuiti a precipitazione e le deformazioni delle lamiere verso l’esterno.  

 Il fenomeno sorbona generato nella carlinga imprime all’aria una velocità a salire trascinando con sé cuscini, valige e cadaveri.

Tutto questo con una velocità di risalita diversa, pertanto si assistette al fenomeno di affioramento dalle 08,40, circa, per quasi due ore.  

Alle 09.45 arrivò l’elicottero HH3F da Ciampino con l’operatore RAI a bordo che effettuò le riprese; Bonifacio marcò con i fumogeni i corpi affioranti allo scopo di semplificare il loro recupero quando arrivarono le Unità navali che a loro volta fecero decollare i loro elicotteri.

Anche loro marcarono i cadaveri con i fumogeni.  Alle 11.15 vennero messe a mare delle scialuppe ed iniziarono il recupero.  

Nel testo redatto dalla Commissione Stragi, si legge come il 20 luglio l’Ambasciata libica a Roma inoltrò al Ministero Affari Esteri una nota nella quale informava le autorità italiane che il 18 luglio alle 10,30 mentre era in addestramento, un pilota si era sentito male ed ha proceduto verso l’Italia. Che sia malore o desiderio di scappare dalla Libia non cambia, la data era il 18. 

E non è nemmeno pensabile che, nella notte tra il 27 ed il 28 giugno, nel Tirreno vi fosse una trappola per Gheddafi, atterrato a Malta, utilizzando il velivolo disertore o altro mezzo, perché l’Ambasciata libica, con quella nota, fece morire ogni sospetto.

Ci fu l’interesse di chiudere quanto prima il caso, senza compromettere la nostra posizione nella NATO. 

Saranno state prese misure atte a coprire quando inizialmente, dalle tracce radar, sembrava essere un’azione di velivolo militare USA, sempre negata dagli americani. 

In seguito, quando questo stava diventando incidente di volo per avaria, si è dovuto coprire qualcosa di più grave: i depistaggi, gli errori, le spese inutili per i due recuperi e non ultimo le varie spese all’Erario per il riconoscimento delle responsabilità per una colpa inesistente. 

Non aver assicurato la sicurezza degli spazi aerei? Il personale era tutto in servizio! Il radar era in linea con la tecnologia dei tempi.

Quanto al coinvolgimento di aerei USA, la portaerei Saratoga, l’unica della VI Flotta in Mediterraneo, era alla fonda a Napoli!

Ci sono foto di sposi sulle terrazze di ristoranti a Posillipo o al Lungomare Caracciolo che in quel giorno lo testimoniano.

Per lanciare un aereo la portaerei deve mettere prua al vento (10 e più nodi), viaggiare a 30 e più nodi, fornire 100 e più nodi con la catapulta.

Alla fonda non può lanciare altro che aquiloni o palloncini. Altra disinformazione! 

Il giornalista Andrea Purgatori, per Atlantide intervistò il nocchiere della Saratoga, all’apoca recluta con soli sei mesi di servizio.

L’intervistato ripeteva di non ricordare il giorno, ricordava era la fine di giugno ’80. 

Erano decollati due Phantom F4 armati di missili ed erano tornati senza, dopo aver abbattuto due Mig libici. 

Ma disse anche che il Comandante voleva provocare l’azione dei Mig entrando ed uscendo da un’area che Gheddafi aveva impropriamente annesso alle sue acque territoriali.

Il giovane nocchiere non poteva sapere che non si trattava del Tirreno ma del Golfo della Sirte. 

Nel Tirreno non potevano i Mig libici scorrazzare liberamente.

Il DC 9 ITAVIA non esplose in volo, non precipitò in mare, ma fece un ammarraggio.

Quanto alle morti sospette di persone coinvolte ai centri radar o alla sicurezza dei cieli italiani non c’è nessun nesso – e movente proporzionato – che colleghi la loro fine con un insabbiamento di testimonianze e prove.

Lo Stato alla fine rassomigliò all’interrogato che confessa ciò che non ha fatto per terminare la tortura.

Il fallimento dell’Itavia, l’incalzante azione del comitato famiglie delle vittime, mise lo Stato nelle condizioni risarcitorie pro bono pacis.

C’era una volta la pista terroristica con la bomba a bordo; segui la teoria del missile lanciato non si sa da chi e a chi…

Il buio radar generò una dietrologia incredibile e comprensibile che alimentò ogni teoria complottistica fino ad oggi.

Furono gestiti male i soccorsi e furono gestiti male i rapporti con la stampa.

Erano altri tempi.

Peccato che non si dette il giusto peso, contrariamente a ciò che si fa in ogni inchiesta, alle dichiarazioni dei primi testimoni oculari, esperti militari di ricerca e soccorso.

Oggi a Bologna è stato allestito un museo dove hanno portato i resti e i reperti dell’aereo ITAVIA.

Fu un recupero lungo e costosissimo del relitto a 3500 metri di profondità che ha fornito una conclusione giudiziaria poco aderente alla storia fattuale, ma capace di chiudere ogni rivendicazione risarcitoria.

Ottantuno vite spezzate di cui solo la metà dei corpi recuperati celeranno per sempre l’effettivo svolgimento della tragedia.