L’alluvione che ha colpito la contea texana di Kerr non è solo una calamità naturale, ma l’ennesimo campanello d’allarme di un pianeta che non regge più gli squilibri climatici generati dall’uomo. Tredici morti, decine di dispersi, bambini inghiottiti da un fiume impazzito: non possiamo più chiamarle “fatalità”.
C’è una frase, spesso abusata, che oggi però suona come un monito terribilmente reale: il clima è impazzito. Ma forse sarebbe più corretto dire che siamo stati noi a farlo impazzire. Le immagini e i racconti che arrivano dalla contea di Kerr, in Texas, spezzano il fiato: un campo estivo travolto dalle acque, famiglie in lacrime, soccorritori che scavano nel fango per ritrovare i dispersi, mentre le sirene avvertono che la pioggia potrebbe tornare, peggiorando una situazione già catastrofica.
Ma dietro la cronaca c’è qualcosa di più profondo e inquietante. Non si tratta di un evento isolato. Non è solo “sfortuna”. È il frutto di un pattern globale che si ripete con una frequenza e una violenza sempre maggiori: alluvioni estreme, ondate di calore fuori stagione, incendi devastanti, uragani che abbattono ogni record. Non sono coincidenze. Sono i sintomi di una crisi climatica in pieno atto.
L’alluvione in Texas ha caratteristiche che ormai conosciamo fin troppo bene: precipitazioni torrenziali concentrate in poche ore, terreni aridi incapaci di assorbirle, fiumi che si gonfiano a dismisura e straripano con furia. Il fiume Guadalupe, lo stesso che già nel 1987 causò una strage di adolescenti in un campo estivo, è salito in tre ore di quasi sette metri, portando via con sé non solo vite umane, ma anche la nostra illusione di essere ancora padroni della natura.
Gli scienziati ce lo ripetono da decenni: l’aumento della temperatura globale non comporta solo scioglimento dei ghiacci e innalzamento del livello dei mari, ma altera profondamente il ciclo dell’acqua. Piove di più dove già pioveva tanto, e troppo dove l’acqua era già un problema. Le “bombe d’acqua” e le “piogge monsoniche fuori luogo” non sono più metafore poetiche ma tragiche realtà statistiche.
Il Texas, come molte zone degli Stati Uniti, sta sperimentando un’estremizzazione climatica inarrestabile. A periodi di siccità prolungata seguono improvvisi diluvi, che il suolo non riesce ad assorbire. È il volto di una terra sempre più esposta agli squilibri termici, aggravati dall’urbanizzazione selvaggia, dalla deforestazione e dalla cementificazione che impedisce alla natura di svolgere la sua funzione di bilanciamento.
Eppure, anche di fronte a questa tragedia, c’è il rischio che si ripeta lo schema dell’indignazione a breve termine: si piangeranno le vittime, si invocherà il miglioramento dei sistemi di allarme, si parlerà di “evento eccezionale” e poi tutto sarà archiviato. Fino alla prossima volta. Ma quante altre “prossime volte” saremo disposti a sopportare?
Il nodo è culturale e politico. Negli Stati Uniti, il dibattito sul cambiamento climatico è ancora polarizzato, talvolta negazionista, spesso subordinato a interessi economici. Ma il clima non vota, non attende, non fa sconti. Colpisce chiunque, senza distinzione di parte o ideologia. Colpisce, sempre più spesso, i più piccoli e i più vulnerabili: i bambini di un campo estivo, come a Kerr County.
Il punto non è se possiamo evitare del tutto eventi estremi — ormai parte del nuovo clima globale — ma se possiamo limitarne la frequenza e mitigarne l’impatto. La risposta è sì. Ma richiede un cambiamento drastico del nostro modello di sviluppo: energie pulite, tutela dei suoli, infrastrutture resilienti, educazione ambientale. E soprattutto, richiede una consapevolezza collettiva: ogni ritardo nell’affrontare la crisi climatica si misura in vite umane.
Quando l’acqua si ritirerà e il silenzio scenderà sui campi devastati di Kerr County, resterà una domanda che ci interpella tutti, in Texas come in Europa: quanto sangue dovrà ancora scorrere prima di agire davvero?
Postilla per il lettore di fede:
E per chi crede, resta anche una responsabilità spirituale: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). Ma questa bontà oggi la stiamo stravolgendo. Forse è tempo che anche le comunità religiose si schierino con più forza: il grido della terra e il grido dei poveri, come ci ricorda Laudato si’, sono un unico grido che non può più essere ignorato.