Dal 2 giugno 1946 ai governi dell’alternanza, una democrazia giovane che ha imparato a camminare tra le ferite della storia e le sfide del presente

L’Italia non è nata repubblica, lo è diventata. Lo è diventata a caro prezzo, tra macerie morali e materiali, tra la polvere delle città bombardate e i morti ancora vivi nella memoria. Il 2 giugno 1946, con un referendum popolare, il popolo italiano—le donne per la prima volta comprese—scelse di archiviare la monarchia sabauda e voltare pagina. Fu una scelta di rottura e insieme di fiducia: l’inizio di un percorso inedito che non aveva copioni scritti. La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, nacque come un compromesso alto tra cattolici, socialisti, liberali e comunisti, una carta capace di reggere l’urto delle diversità, e forse proprio per questo ancora oggi attuale.

La Repubblica si costruì lentamente, tra ricostruzione economica, guerra fredda e tensioni sociali. Gli anni ’50 e ’60 furono di crescita industriale e migrazioni interne, ma dietro le autostrade e il boom economico si agitavano anche le ombre di un’Italia profonda: quella contadina e meridionale, quella esclusa dal miracolo.

Gli anni ’70 furono laceranti. Il prezzo della democrazia si pagò in sangue. Gli anni di piombo portarono la Repubblica sull’orlo del collasso: terrorismo rosso e nero, stragi di Stato, il caso Moro, Piazza Fontana, Bologna, Ustica. Eppure, nonostante la paura, le istituzioni non caddero. La Repubblica dimostrò di avere anticorpi, seppur dolorosi. La società civile, i sindacati, la Chiesa e la magistratura contribuirono a tenerla in piedi.

La Prima Repubblica, che era nata sotto l’egida della DC, con il PCI all’opposizione sistemica, si esaurì negli anni ’90, travolta da Tangentopoli. Il crollo dei partiti tradizionali fu il segnale che la Repubblica stava cambiando pelle. L’inchiesta “Mani Pulite” non solo decapitò l’establishment, ma aprì uno squarcio: la politica non era immune dal malaffare. Il mito della superiorità morale fu incrinato.

Da quella cesura nacque la Seconda Repubblica, anche se formalmente nulla cambiò nella Carta. Cambiò però il costume, il linguaggio, l’immaginario. Il sistema diventò bipolare, e sulla scena entrò Silvio Berlusconi. Il berlusconismo fu molto più di una leadership: fu una narrazione. L’Italia scoprì la politica spettacolo, la comunicazione diretta, l’antipolitica incarnata nel potere. Una metà del Paese lo idolatrava, l’altra lo considerava una minaccia. I governi tecnici—come quelli guidati da Dini, Monti o Draghi—emergono quando la politica si inceppa, ma sono anch’essi un prodotto della Repubblica: una democrazia parlamentare non bloccata, ma a volte costretta a cercare supplenze.

L’alternanza tra centrodestra e centrosinistra ha scandito gli ultimi vent’anni, ma mai come oggi si avverte una stanchezza democratica. L’affluenza cala, i partiti perdono identità, e le coalizioni spesso si tengono per necessità, non per visione condivisa. Eppure, in questo logoramento, la Repubblica italiana è ancora un laboratorio vivo di mediazione, fragile ma resistente.

Oggi il centrodestra governa, con una premier donna per la prima volta. Anche questo è un segno che la Repubblica cambia. Ma resta aperta una domanda: che cosa vuol dire essere Repubblica nel XXI secolo? Significa non solo istituzioni, ma popolo che partecipa, cittadini che vigilano, giovani che sanno da dove vengono e immaginano dove andare.

La Repubblica italiana è una promessa sempre incompiuta, ma proprio per questo sempre vera. Non è perfetta, ma è nostra. E come ogni storia d’amore vera, va difesa e curata ogni giorno, anche quando sembra affaticata, anche quando delude.

Perché la Repubblica è ciò che siamo quando siamo noi stessi: liberi, diversi, in cammino.