Dieci anni fa spariva nel nulla Padre Paolo Dall’Oglio missionario gesuita in Siria.

Il 29 luglio 2013 si era recato a Raqqa nel quartier generale dell’Isis. 

Da quel momento in poi si persero completamente le sue tracce.

Papa Francesco, da poco eletto al soglio pontificio, aveva chiesto di pregare per il suo confratello scomparso, sicuramente nelle mani dell’Isis.

È intrigante l’atteggiamento persecutorio nei confronti del missionario Padre Paolo Dall’Oglio da parte del mainstream tradizionalista cattolico che criticavano il suo dialogo con l’Islam e le posizioni contro il dittatore Assad.

Inutile ripetere a macchinetta che Saddam difendeva i cristiani come Mubarak in Egitto e Assad in Siria. 

Chissà se Franco, Hitler e Mussolini difendessero i cristiani dal pericolo bolscevico…

Erano dittature da abbattere e schierarsi per esse, per qualunque ragione pur comprensibile, equivaleva a portare in solido le responsabilità morali criminali di quei regimi.

Padre Paolo Dall’Oglio nato a Roma il 17 novembre del 1954 entrò nella Compagnia di Gesù nel 1975, a soli 21 anni. 

È laureato in Lingue e Civiltà orientali all’Istituto Orientale di Napoli e ha ottenuto un Dottorato sul tema del Dialogo con l’Islam alla Pontificia Università Gregoriana di Roma per perfezionare poco dopo gli stessi studi a Beirut.

Negli anni Settanta, da studente di scuola superiore, militava nei circoli torinesi di Lotta Continua. Aveva solo diciassette anni, l’età degli adolescenti idealisti per i grandi sogni e progetti messianici di salvezza del mondo.

Anche da religioso Padre Paolo ha conservato una buona dose di idealismo accompagnato da concretezza determinata nei suoi progetti.

Nella profezia del dialogo di pacificazione nazionale si è ritrovato nemico sia del regime di Assad che di larga parte della Chiesa locale siriana.

L’ostilità era diventata totale negli ultimi mesi prima del suo viaggio fatale nel covo di Isis, ma in forma meno acuta perdurava da anni. E ciò per il fatto che Paolo era un personaggio scomodo, ingombrante, troppo puro e desideroso di coerente verità per poter convivere con l’antica e organica alleanza tra la dittatura — i suoi apparati di sicurezza, la sua repressione organizzata — e la nomenklatura delle Chiese cristiane locali.

La scelta di legarsi ai gesuiti, la prima fase del suo lavoro in Libano, il suo amore per l’Islam, la sua profonda conoscenza della lingua e cultura arabe, la sua difesa contro chi lo accusava di essere “troppo sincretista” nel promuovere il valore necessario del dialogo islamico-cristiano, avevano fatto il resto.

Nel 1982 scoprì i ruderi del monastero cattolico siriaco Mar Musa, costruito nell’XI secolo attorno a un antico romitorio occupato nel VI secolo da San Mosè l’Etiope, e vi si insediò per un’esperienza di vita più contemplativa. 

Nel 1984, Dall’Oglio fu ordinato sacerdote del rito siriaco cattolico e decise di ricostruire le mura del monastero. 

Nel 1992 vi fondò una comunità spirituale ecumenica mista, la comunità al-Khalil che promuove il dialogo islamico-cristiano.


Dopo la “primavera araba” e l’inizio della rivolta contro il presidente siriano Bashar Al Assad, Padre Paolo Dall’Oglio in svariate occasioni sostenne la causa della lotta contro il regime di Damasco.

Lo fece con appelli, incontri, conferenze, attraverso una rubrica sulla rivista dei gesuiti “Popoli”, con un blog sull’Huffington Post Italia e utilizzando Facebook e Twitter. 

La Siria da sempre rappresenta uno degli sbocchi sul Mediterraneo più strategici per la Russia che con Putin creò un sodalizio con il mondo tradizionalista cattolico nella prima decade degli anni Duemila. 

Il sostegno russo al mondo catto-tradizionalista  si è poi dissolto con l’ingresso di Trump alla Casa Bianca e i fondi dell’estrema destra repubblicana e del magnate sovranista Bannon.

La guerra in Ucraina di oggi ha fatto il resto.

Padre Dall’Oglio del regime di Assad disse: “è colpevole di una repressione inumana e indiscriminata che speravo proprio di non vedere nel ventunesimo secolo”. 


Paolo Dall’Oglio decise per qualche tempo di mantenere un “basso profilo”, senza dichiarazioni pubbliche ostili al regime. Il 23 maggio del 2012 inviò a Kofi Annan, allora inviato speciale dell’Onu per la crisi siriana, una lettera aperta nella quale chiedeva la creazione di una forza di interposizione di tremila caschi blu per garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile, accompagnati da trentamila volontari della società civile per sostenere la ripresa della vita democratica nel Paese. Il regime lo espulse il 12 giugno 2012 e lui partì “avvilito, ma non meravigliato”.


Senza darsi per vinto e rinunciare al suo impegno, nel febbraio successivo tornò furtivamente in Siria passando dal Kurdistan iracheno per un viaggio che definì “un pellegrinaggio del dolore e della testimonianza”.


Il 24 luglio rivolse un appello personale al Pontefice: “Stimato e caro Papa Francesco, sapendola amante della pace nella giustizia, le chiediamo di promuovere personalmente un’iniziativa diplomatica urgente e inclusiva per la Siria, che assicuri la fine del regime torturatore e massacratore, salvaguardi l’unità nella molteplicità del paese e consenta, per mezzo dell’autodeterminazione democratica assistita internazionalmente, l’uscita dalla guerra tra estremismi armati. Chiediamo con fiducia al Papa Francesco d’informarsi personalmente sulla manipolazione sistematica dell’opinione cattolica nel mondo da parte dei complici del regime siriano, specie ecclesiastici, con l’intento di negare in essenza la rivoluzione democratica e giustificare, con la scusa del terrorismo, la repressione che sempre più acquista il carattere di genocidio”.  


Il 28 luglio 2013 si persero le sue tracce durante una sua spedizione a Raqqa, nel nord del Paese, roccaforte dell’Isis. 

«Abuna» Paolo, come familiarmente lo chiamavano gli arabi, sulla questione siriana fu subito molto chiaro: i moti insurrezionali contro il regime erano legittimi, giusti e andavano sostenuti. Occorreva a quel fine smussare gli aspetti estremisti dei gruppi jihadisti che stavano crescendo tra le pieghe della rivolta popolare e degli scontri di piazza. Era ben consapevole dei timori crescenti tra la popolazione cristiana locale. E proprio per quel motivo occorreva il dialogo. In sintesi: si dovevano creare le basi di una nuova Siria tollerante e democratica destinata a sostituire gli orrori del regime.

Temeva gli agenti e i sicari di Assad, tra loro anche cristiani. Parlava con disprezzo della famigerata «Shabiha», composta da squadracce di militanti che spesso si travestivano da jihadisti per eliminare brutalmente gli elementi moderati della rivoluzione.

In questa guerra che sembra rendere tutti uguali spiccava però, chiarissimo e costante, l’intento di Assad di dividere le comunità, metterle l’una contro l’altra con le provocazioni compiute intenzionalmente dai suoi paramilitari per accendere il circuito delle vendette, trasformare il fuoco in incendio scarcerando i più pericolosi jihadisti. 

Ma c’era di più. Padre Paolo da tempo era in scontro aperto con i vescovi siriani. La sua posizione era sostenuta da alcuni elementi del Vaticano. Se fosse stato per le gerarchie ecclesiastiche di Damasco, sarebbe stato espulso all’estero già da tempo. Lui non stava in silenzio. In Vaticano denunciava di continuo la corruzione e la dubbia moralità di alcuni alti prelati siriani. Per esempio, aveva denunciato la pedofilia di monsignor Isidore Battikha, nato ad Aleppo nel 1952 dove era stato ordinato sacerdote dell’ordine Basiliano Aleppino dei Melkiti e quindi arcivescovo emerito di Homs. 

Un’accusa che era stata recepita dalla Sacra Rota, tanto da spingere l’alto tribunale vaticano, con l’assenso di Papa Benedetto XVI, a trasferire in tutta fretta e segretezza il prelato in Venezuela.

Nel 2012 la rabbia covava nelle Chiese siriane. «Paolo è una spia del Mossad, un agente della Cia, un nemico della Siria e dei siriani», denunciavano apertamente, anche con l’inviato del Corriere della Sera

A Qamishli, nella regione semi-autonoma curda sui confini con la Turchia, fonti del patriarcato armeno lasciarono intendere che i capi dell’Isis a Raqqa avrebbero offerto uno scambio di ostaggi con il regime. Non ci fu alcun seguito a favore di Abuna paolo Dall’Oglio perché gli apparati del regime rifiutarono la proposta. 

In verità Damasco era ben contenta della sua eliminazione. Con un valore aggiunto: il nemico Paolo da morto avrebbe potuto paradossalmente servire per rilegittimare la causa di Assad agli occhi del mondo cristiano occidentale. 

Padre Paolo, dopo varie insistenze, illustrò ai vertici dell’Isis un messaggio in cui la leadership del curdi iracheni con ogni probabilità ipotizzava un compromesso territoriale. 

Se c’era una speranza per milioni di esseri umani e lui era considerato l’unico che avrebbe potuto accettare una simile missione, poteva rifiutarsi dicendo: “Ho paura”? 

La scomparsa dell’emissario conteneva la risposta segreta ai curdi, che solo loro avrebbero capito: “Non ci sono compromessi”. 

Padre Paolo sapeva benissimo quel che rischiava. 

E se fosse questo ciò che è accaduto, il silenzio della leadership del Kurdistan iracheno addolorerebbe senza sorprendere. 

Loro hanno combattuto la guerra all’Isis, i morti sono stati tantissimi, che interesse avrebbero a dire che avevano pensato di trattare col nemico? 

A tenere viva la memoria di chi accettò un rischio enorme per fermare la corsa verso il baratro? 

Sarebbe tutto qui il senso della sua vita e della sua scelta.