Con il senno di poi la breve liberalizzazione della Messa tridentina nella liturgia romana ha creato divisioni che hanno ferito la Chiesa per l’arroganza restaurazionista di un mondo che non c’è più.

«Eureka» esclamò Archimede, quando scoprì il principio della spinta idrostatica.

Eὕρηκα hanno gridato un decennio e mezzo fa i tradizionalisti, per risolvere i problemi della scristianizzazione in Occidente.

Abbiamo trovato la soluzione! 

Per salvare la Chiesa dalla scomparsa annunciata servono il «sacro», la «Messa in latino» e «discorsi più ontologici. Bando ai temi sociali!» 

Avremo un mondo migliore.

La liberalizzazione della Messa Tridentina non è durata nemmeno un decennio perché la presunta bontà della trovata euristica è stata smentita dai fatti.

L’accusa, in buona sostanza, è che la famosa «generazione conciliare» avrebbe, con il Vaticano II, mancato di mantenere il cattolicesimo a un livello di massa. 

Questo naturalmente vale per il cosiddetto Occidente.

Dovremmo quindi tornare alle celebrazioni in latino, alla Messa tridentina, detta la Messa di sempre, per la pretesa che all’Ultima Cena fu il rito adottato da Gesù in persona…

Negli anni 1990-2000 la stessa generazione conciliare si opponeva già a quello che allora veniva visto come “il futuro” della Chiesa: la comunità di Saint-Jean, i Legionari di Cristo, per esempio, che avevano una liturgia molto curata…

I Francescani dell’Immacolata, che oggi stanno facendo un interessante percorso di rinascita dopo l’esperienza commissariale, hanno conosciuto la peggiore crisi proprio durante il ritorno alla liturgia tridentina (2008-2013).

Non si tratta di criticare questi movimenti oggi, ma mentre sono stati presentati come la soluzione, bisogna riconoscere che non lo erano più di altri. 

Alcuni, a partire dagli stessi Fondatori, vengono anche dolorosamente chiamati in causa per motivi disciplinari e morali gravi.

Quanto al Concilio come panacea di tutti i mali, la stragrande maggioranza di chi caldeggiava questa tesi non è più al timone della Chiesa da un quarto di secolo… 

Molti sono passati a miglior vita, poiché nell’incontro con Dio, non ci sarà più «un discorso da fare…»

Se proprio è necessario addossare delle responsabilità, dovremmo dire che «il colpevole» per aver omologato tutti questi movimenti è Giovanni Paolo II … santo!

Questo non ha senso.

Non è «colpa» di nessuno… o almeno non nel modo giustizialista social-giornalistico al quale siamo abituati.

La mania di accusare una parte dei cattolici è il modo migliore per rifiutare di vedere il problema. 

Che persone con una visione piuttosto classica rimangano fedeli alla regolare pratica religiosa, è una cosa buona.

Diverso è il modo con il quale vivono la fede al quotidiano.

Se vado a Messa tutte le domeniche, prediligendo magari la Messa tridentina e poi mi considero migliore degli altri, insulto il Papa, detesto l’attuale Magistero e ho una visione del futuro tanto disfattista, quanto provinciale, c’è da dubitare sulla bontà del rito nella coerenza e aderenza al mio credo incarnato.

Da anni nei paesi europei di radice cristiana è in atto una profonda riflessione sul modo con il quale si è diffusa la fede, la catechesi tradentae.

Il modello del buon cattolico era esclusivamente la pratica alla Messa domenicale e la buona parrocchia era il «sacramentificio».

Non c’era bisogno di fare la carità perché la ricca Chiesa poteva provvedere a sfamare l’intera umanità.

Avvicinarsi ai poveri significava essere comunisti e quindi atei militanti.

Fatta la Prima Comunione e, nella migliore delle ipotesi la Cresima, i giovani prendevano una lunga vacanza dalla chiesa e li rivedevi al matrimonio, sempre se sceglievano quello religioso e non la convivenza o il solo matrimonio civile.

Se facevano figli, cosa sempre più rara, tornavano per il battesimo.

Il modello di un’istituzione ecclesiale mobilitata solo attorno alle celebrazioni domenicali e ai grandi sacramenti della vita (nascita, matrimonio, morte) non regge più nella nostra società secolarizzata. 

O può attrarre solo una piccola parte della popolazione.

 La stragrande maggioranza dei giovani – e meno giovani del resto – non ci si ritrova più. 

Il cristianesimo deve trovare ancora mezzi di espressione, di trasmissione.

Il Vangelo deve essere letto e pregato. 

Ma senza dubbio è necessario accettare altri modi di pregare, di radunarsi, di incontrarsi, di mettersi in gioco. 

Il Vangelo deve essere vissuto!

Preti imborghesiti e clericalisti, funzionari del sacro e carrieristi, non servono a nulla.

Disciplina esterna e immoralità interna si chiama neo-fariseismo, lo stesso che ricondanna a morte Gesù, questa volta nel suo corpo mistico che è la Chiesa.

Piuttosto che perdersi tra cristiani in accuse reciproche e sterili, bisogna invece dimostrare creatività – come aveva già teorizzato Benedetto XVI – e osare essere diversi, plurali, senza un unico modello, dimenticando le etichette dei cattolici reazionari o progressisti. 

Con l’avvento di Papa Francesco si è presentato il modello di una Chiesa più dinamica, missionaria, povera per i poveri, in linea con la realtà latino-americana.

C’è infatti da chiedersi poi come mai in Africa i credenti aumentino esponenzialmente e in Europa diminuiscono.

Non è lo stesso Vangelo che si predica?

L’incarnazione raggiunge ogni uomo e tutte le realtà dell’uomo.

 Cristo, quindi, raggiunge tutti gli uomini nella complementarità delle loro culture.

È necessario imparare ad analizzare le culture per cogliervi ostacoli e potenzialità in rapporto alla ricezione del Vangelo. 

L’inculturazione favorirà la conservazione e la crescita di tutto ciò che è sano negli usi, nelle tradizioni, nell’arte e nel pensiero dei popoli. 

Come afferma il Vaticano II, la chiesa non imporrà una rigida uniformità: «anzi (essa) rispetta e favorisce le qualità e le doti d’animo delle varie razze e dei vari popoli. 

Tutto ciò poi che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo prende in considerazione con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, anzi a volte lo ammette nella liturgia stessa, purché possa armonizzarsi con gli aspetti del vero e autentico spirito liturgico» (SC 37).

La fede in Cristo non è il prodotto di una cultura, non si identifica con nessuna di esse, anzi se ne distingue proprio perché viene da Dio. 

Per le culture, la fede è «scandalo» e «follia», come si esprime S. Paolo (1 Cor 1,22- 23). 

Ma tale distinzione tra fede e cultura non significa dissociazione.

La fede è destinata a impregnare tutte le culture umane, per salvarle ed elevarle, secondo l’ideale del Vangelo. 

Anzi, la fede è veramente vissuta solo se diventa cultura, cioè se trasforma le mentalità e i comportamenti. 

In un’epoca di post-umanesimo la Chiesa è pronta a rilevare la sfida della Nuova Evangelizzazione o si vuole attardare dietro pizzi e merletti, latino e tridentino, soldi e potere, gnosi e pelagianesimo… in un’ipocrisia senza fine?

Non si può prescindere dalla piena comprensione delle realtà della fede e delle realtà culturali implicate nella evangelizzazione.