Lo scontro diplomatico con la Francia rivela tutta l’isolazionista solitudine dell’Italia nella crisi europea: la premier resta ai margini mentre Parigi, Berlino, Madrid e persino Londra stringono nuove intese. E nel vuoto di politica estera, Roma perde voce e ruolo.
Nel teatro sempre più fragile dell’Unione Europea, si consuma uno scontro che ha del grottesco e del tragico insieme: Giorgia Meloni contro Emmanuel Macron. Non un confronto tra pari, ma l’esibizione plastica di due idee opposte d’Europa: quella post-nazionale, multilaterale e ancora vagamente federale evocata da Parigi, e quella identitaria, sovranista, fatta di scontri e ritorsioni diplomatiche, ormai incarnata da Palazzo Chigi.
Il gelo tra Macron e Meloni è il riflesso di una frattura più profonda, che va ben oltre le dichiarazioni incrociate o i mancati inviti: è la conseguenza di un’Italia sempre più ai margini delle dinamiche geopolitiche europee, incapace di costruire alleanze credibili e ridotta, nei vertici che contano, al rango di osservatore silente o assente.
È significativo che proprio mentre Meloni si lamenta per l’esclusione dal mini-summit di Tirana sulla crisi ucraina – dove sedevano Macron, Merz, Tusk e Starmer – il presidente francese dialoga direttamente con Trump, pubblicando persino il video della telefonata. In parallelo, si organizza un fronte europeo in grado di agire, mentre l’Italia si intestardisce su format di cui neppure conosce la funzione o gli obiettivi.
La premier ha scelto la strada della polemica personale – “basta personalismi” ha detto, riferendosi a Macron – ma in realtà a mancare è proprio una visione politica, una strategia estera. E l’isolamento non è figlio della perfidia francese, ma dell’inadeguatezza del melonismo diplomatico. Il sottosegretario Fazzolari, in una delle sue solite sparate, definisce la coalizione dei Volenterosi «inutile e confusa», ma dimentica di dire che è proprio l’Italia a essersi autoesclusa da ogni consesso utile, a furia di diffidenza e propaganda.
Non è un caso se anche il “partner strategico” Merz, che pure tende una mano a Meloni, poi le ricorda i suoi limiti: no alla lettera anti-Corte europea, sì al dossier Draghi-Letta sull’economia, sì al Mercosur, sì a un’Europa che non si chiuda in sé stessa. Insomma, l’amico tedesco la ascolta, ma poi si muove con Macron, e l’asse Berlino-Parigi resta saldo.
E mentre Macron diserta persino l’intronizzazione di Papa Leone XIV – gesto simbolico che dice molto – Meloni fa leva sulla cerimonia vaticana per riguadagnare centralità, giocando la carta di un’Italia spirituale che però non basta a compensare il vuoto diplomatico. “Soprattutto ora che l’ipotesi truppe è tramontata, siamo disponibili a tutti i formati”, dice in serata. Ma sembra tardi. E soprattutto poco credibile.
La verità è che nel mondo reale delle relazioni internazionali, tra guerre, crisi energetiche e sfide industriali, la postura muscolare e vittimista del governo italiano non regge. L’ideologia sovranista ha preso il posto della competenza, e con essa ogni riflesso progressivo e solidale dell’azione diplomatica. Il Trattato del Quirinale, firmato con la Francia, giace inerte. Le alleanze con l’Ungheria di Orbán e la Polonia pre-Tusk non bastano più.
E intanto, mentre Meloni gioca la carta dell’orgoglio nazionale contro Bruxelles e Parigi, a Roma si prepara la Conferenza di luglio per la ricostruzione dell’Ucraina. Ma anche lì – avverte l’opposizione – l’Italia si candida a gestire affari senza aver fatto nulla per guadagnarsi la fiducia dei negoziatori. «Un approccio goffo e cinico», lo definisce Nicola Zingaretti. Come dargli torto?
Lo scontro con Macron è l’emblema di un’Italia che, per scelta ideologica, ha smesso di fare politica estera. E oggi scopre che senza politica estera, non c’è neanche politica europea.