L’intronizzazione di Papa Leone XIV diventa per la premier un’occasione per riposizionarsi sulla scena internazionale. In mancanza di un asse europeo, Palazzo Chigi guarda agli USA trumpiani e al soft power vaticano.
Quando la geopolitica s’incrocia con il protocollo vaticano, a Palazzo Chigi si accende il radar delle opportunità. L’intronizzazione di Papa Leone XIV – evento altamente simbolico, carico di diplomazia e potere silenzioso – si trasforma così nella passerella perfetta per Giorgia Meloni. Dopo la bruciante esclusione dalla telefonata di Tirana – il tavolo dei grandi sul conflitto in Ucraina, dove sedevano Macron, Merz, Tusk, Starmer e Zelensky – la premier cerca un nuovo scatto di visibilità. E lo fa, come spesso accade, non nel cuore dell’Unione, ma in quella zona grigia tra spiritualità e strategia, dove si muove la Santa Sede.
La mossa è chiara: sfruttare la presenza a Roma del vicepresidente USA, J.D. Vance, fedelissimo di Donald Trump, per rimettersi in pista nel gioco dei grandi. Non una stretta di mano in San Pietro, ma un incontro vero, forse a Palazzo Chigi, magari con Ursula von der Leyen e, si auspica, lo stesso Zelensky. L’operazione immagine – meglio se in posa tripla – mira a ricucire lo strappo albanese, a scacciare il fantasma del tavolo “europeo” che si è riunito senza l’Italia.
Ma il riaccreditamento non si ferma qui. Si lavora febbrilmente per rientrare nella futura “call” di Trump con Putin, Zelensky e alcuni Paesi NATO. La Meloni vuole esserci. Perché mentre l’Europa discute di difesa comune, di corte di giustizia e di Mercosur, la premier italiana preferisce collocarsi lungo l’asse Washington-Roma, scommettendo – ancora una volta – su un’America repubblicana che potrebbe tornare a dettare la linea in Occidente.
Una strategia rischiosa. Perché in Europa le porte si chiudono una a una. Il gelo con Macron è conclamato. Il dialogo con Friedrich Merz, apparentemente cordiale, nasconde distanze profonde. Il tedesco ha ribadito a Roma il pieno allineamento con Parigi. Sui dossier europei cruciali – truppe in Ucraina, giustizia europea, commercio internazionale – Meloni e Merz parlano due lingue diverse. La premier ha provato a intestarsi un piccolo successo sul format migranti, coinvolgendo Berlino nel gruppo di paesi già in sintonia con Orban. Ma è una vittoria di retrovia, che non sposta gli equilibri principali.
Il quadro è quello di un’Italia isolata nel cuore dell’Europa, che cerca riparo nei simboli forti – come il Vaticano – e negli interlocutori esterni. Una politica estera ridotta a calendario cerimoniale, mentre i dossier veri scivolano di mano. La foto con J.D. Vance potrà anche rimbalzare sui social meloniani, ma non risolverà le fratture strategiche aperte con Bruxelles, Berlino e Parigi. E mentre Meloni insegue l’immagine di leader globale, l’Italia rischia di restare fuori dai tavoli dove si decidono la pace, la sicurezza e l’industria del continente.
In fondo, la diplomazia è fatta di ponti, non di pose. E se davvero vuole “ripartire dal filo rosso Gop”, come dicono i suoi, Meloni dovrebbe chiedersi se si può costruire un’Europa credibile guardando prevalentemente oltreoceano.