Un aspetto centrale del capitalismo, oggetto di ampio dibattito economico, è l’accumulazione del capitale. Questo processo, essenziale per comprendere il funzionamento dei sistemi economici capitalistici, implica un incremento delle capacità produttive e degli investimenti nei beni e nei servizi, generando un ulteriore accumulo di valore.
L’accumulazione non è un fenomeno statico, ma un meccanismo dinamico in continua evoluzione, che reinveste i profitti in nuove attività e accresce il capitale disponibile, sia in forma materiale (impianti, infrastrutture, tecnologia) sia in forma immateriale (competenze, brevetti, idee). Sin dalle prime teorie economiche, il tema dell’accumulazione del capitale è stato oggetto di riflessione. Adam Smith, nel suo classico La Ricchezza delle Nazioni, ne evidenziava il ruolo propulsivo per la crescita economica e il benessere collettivo. Al contrario, Karl Marx ne fornì un’interpretazione critica, sottolineando come l’accumulazione del capitale potesse generare conflittualità, concentrazione della ricchezza, sfruttamento del lavoro e crisi ricorrenti. Questa duplice visione del capitale – come motore di progresso e, al tempo stesso, fonte di instabilità e disuguaglianze – continua a essere centrale per l’analisi delle dinamiche economiche contemporanee.
L’accumulazione del capitale si caratterizza inoltre per il suo sviluppo ciclico, uno degli aspetti distintivi del capitalismo. Non si tratta di un processo lineare, ma di un’alternanza tra fasi di espansione e contrazione, spesso legate a innovazioni tecnologiche, mutamenti nei mercati globali e crisi economiche. Comprendere questi cicli è essenziale per interpretare i grandi cambiamenti storici ed economici e per delineare strategie di intervento volte a ridurre le disuguaglianze e promuovere uno sviluppo più equo e sostenibile.
Spiegava l’economista russo Nikolai Kondratiev, che ogni grande trasformazione economica dall’industrializzazione all’era della digitalizzazione è stata preceduta e seguita da un periodo di intensa accumulazione e da un’epoca di declino o stagnazione, il processo viene chiamato cicli lunghi. Joseph Schumpeter arricchisce questa teoria ponendo attenzione al ruolo centrale dell’innovazione e dell’imprenditoria nella creazione di nuovi cicli economici.
Tuttavia, l’accumulazione del capitale porta con sé profonde contraddizioni. La concentrazione della ricchezza in poche mani, le disuguaglianze sociali, la precarietà del lavoro e lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali rappresentano le ombre di un sistema che, pur generando innovazione e progresso, rischia di mettere in crisi la sostenibilità economica e ambientale. Questi problemi, accentuati dalla globalizzazione e dalle recenti crisi economiche, pongono interrogativi urgenti sul futuro del capitalismo.
L’attuale e grave crisi globale che colpisce i paesi capitalistici mostra il carattere autodistruttivo del sistema di produzione capitalistico seppur la sua fine appare ancora come un miraggio. Il capitale, quindi, ha sempre cercato, in ogni epoca storica, modi diversi per valorizzarsi e generare profitto in qualsiasi condizione e rilanciare i relativi cicli di accumulazione.
Per capire meglio l’evoluzione di questi cambiamenti è necessario innanzitutto capire il fenomeno dell’internazionalizzazione del capitale e della produzione che è stato ben analizzato da Lenin alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo nell’opera L’imperialismo fase suprema del capitalismo in cui definisce anche le caratteristiche principali del capitalismo come Modo di Produzione concentrandosi sulla ripartizione economica e territoriale che caratterizzano questa fase dello sviluppo, segnata essenzialmente dal predominio dei monopoli. All’interno di questo sviluppo dell’internazionalizzazione dei rapporti capitalisti sono intervenuti vari fenomeni che non fanno altro che presentare l’internazionalizzazione del ciclo del capitale mondiale così come era stata delineata da Marx nel secondo volume de Il Capitale. Per Marx, il capitale industriale rappresenta l’unità e la relazione di tre cicli: denaro, merce e produzione. Analizzando storicamente il ciclo e i rapporti di mercato, cioè lo scambio di merci, si osserva che i rapporti monetari si sviluppano più lentamente rispetto ai rapporti produttivi. Questi ultimi ottengono un grande impulso solo con la nascita delle imprese multinazionali, che operano sull’attività produttiva in diversi paesi come se fossero reparti di una singola unità produttiva. I cicli del capitale, attraverso il denaro e la merce, fin dall’inizio operano in uno spazio internazionale, vincolati sia al commercio delle merci che all’esportazione dei capitali. Questo tratto dominante si osserva già negli anni ‘60 del XIX secolo, quando Francia e Inghilterra esportavano capitale. Denaro e merce, una volta sviluppato il mercato, possono operare indipendentemente nella circolazione come capitale merce e capitale di prestito, possono anche agire a livello internazionale nel commercio e nell’esportazione del capitale denaro, che rappresenta la forma originaria dell’esportazione dei capitali.
Lo sviluppo del ciclo del capitale si internazionalizza in due tappe fondamentali:
a) durante la prima il capitale denaro e la merce si fanno strada in campo internazionale per mezzo della creazione del mercato mondiale;
b) durante la seconda tappa, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a livello di concentrazione del capitale e della produzione in un piccolo gruppo di paesi capitalisti nasce il monopolio, si crea così un processo di internazionalizzazione.
È su questa base che si genera capitale finanziario ed esportazione di capitali, terminando con il dominio dei monopoli a livello internazionale per mezzo della realizzazione della ripartizione economica e territoriale. Inoltre, il capitalismo europeo, grazie alle grandi scoperte geografiche, accumula le prime ingenti ricchezze che fanno da base per le prime forme di accumulazione propriamente capitalistica. Le colonie, come evidenzia Jaffe, sono cruciali per l’accumulazione capitalistica e per lo sviluppo del commercio internazionale grazie al loro apporto di materie prime, di cui l’Europa è carente. Queste materie prime, necessarie per accumulare e produrre ricchezza, includono non solo minerali ma anche una forza-lavoro schiavizzata e sottopagata perché supersfruttata. La disparità nei livelli di produttività e nell’intensità del lavoro tra paesi porta a un maggiore sfruttamento dei più poveri da parte dei più ricchi nel mercato mondiale. In termini economici, i paesi più forti riescono a ottenere una maggiore quantità di lavoro nello scambio rispetto a quanto ne forniscono. L’internazionalizzazione del capitale e della produzione derivano dall’azione delle leggi dell’accumulazione e dello sviluppo economico e politico disuguale del capitalismo, e in ciò Lenin è stato chiaro.
Con la saturazione progressiva del mercato interno, il capitale non è più in grado di valorizzarsi e la sovrapproduzione di merci al livello nazionale genera la necessità di esportarle all’estero. La sovrabbondanza poi di capitali interni non valorizzabili comporta il bisogno di investirli al di fuori dei propri confini, l’economia capitalistica quindi si mondializza in base alle sue esigenze di valorizzazione. Lo scontro globale dei capitali comporta così una lotta continua sviluppata su più livelli: economici, giuridici e militari.