In un tempo in cui la comunicazione ecclesiale rischia di impigliarsi nelle parole e nelle formule, Papa Francesco ha scelto ancora una volta il linguaggio semplice e dirompente dei gesti. Il 17 aprile, Giovedì Santo, l’ottantottenne Pontefice – ancora convalescente da una lunga degenza per una doppia polmonite – ha lasciato la sua residenza in Santa Marta per visitare la prigione romana di Regina Coeli, rinnovando così una tradizione che è molto più che simbolica: è un atto profetico.

Non c’è stato bisogno di parole forti, di proclami o di discorsi articolati. C’è stato solo un uomo sulla sedia a rotelle, fragile nel corpo ma saldo nel cuore, che ha salutato 70 detenuti uno ad uno, li ha ascoltati, ha pregato con loro, ha portato Cristo dove troppi pensano che non possa abitare.

Una Chiesa che torna alle periferie

È la visione di Francesco: una Chiesa che esce, che non ha paura di toccare le piaghe, che si inginocchia davanti alla miseria, alla colpa, al bisogno di redenzione. La prigione non è un luogo esterno alla comunità cristiana, ma – nella logica evangelica – un altare dove si celebra la misericordia. Ogni volta che entra in un carcere, Francesco compie un atto ecclesiale: riporta la Chiesa dove Cristo ha promesso di essere: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36).

E mentre le cronache ricordano che Regina Coeli ospita quasi il doppio dei detenuti per cui è stato pensato, il Papa non si limita a una denuncia istituzionale, ma pone un gesto pastorale, incarnato, intimo. Entra in silenzio, riceve applausi, ascolta “grazie Padre!” e “libertà!” e non risponde con slogan, ma con vicinanza. Non può lavare i piedi, come fece nel 2018 nello stesso luogo, ma lava l’umiliazione con la sua presenza.

Perché loro e non io?

La frase che Francesco consegna ai giornalisti mentre lascia il carcere è tra le più forti del suo pontificato:

“Ogni volta che entro queste porte, mi chiedo: perché loro e non io?”

È il contrario della mentalità farisaica. È la consapevolezza profonda del peccato e della grazia. È il rifiuto di ogni moralismo. È la voce di un Papa che si riconosce peccatore tra i peccatori, che non si pone sopra ma accanto, che non giudica ma accompagna. In questa frase c’è tutto il Vangelo, c’è l’insegnamento di Cristo, c’è la differenza tra un potere clericale e un’autorità che nasce dalla compassione.

Il Vangelo nel tempo della debolezza

In questi giorni santi, segnati per lui dalla malattia e dalla fatica fisica, Francesco non ha rinunciato al suo stile. Non indossa l’ossigeno, non forza le sue forze, ma offre sé stesso con ciò che può. E quando un giornalista gli chiede come sta vivendo questo tempo pasquale, risponde con disarmante umiltà:

“Come meglio posso!”

Questa frase è la traduzione pastorale della Croce. È il Vangelo nella sua nudità e potenza: si ama, si serve, si crede non come si vorrebbe, ma come si può. E anche nel limite, si può essere testimoni.

Misericordia che giudica il mondo

La visita a Regina Coeli è più di una tappa della Settimana Santa. È un giudizio sul mondo. Un mondo che separa, condanna, esclude. Un mondo che chiude i colpevoli nei luoghi dell’oblio. E un Papa che li visita per ricordare che anche loro sono figli, fratelli, chiamati a sperare.

Il cristianesimo non è un premio per i giusti, ma una speranza per chi ha sbagliato. Francesco continua a gridarlo con la sua vita. Con voce stanca, ma con la forza di chi crede che la misericordia non è una debolezza: è la sola forza che cambia davvero la storia.