L’attentato in Kashmir e la risposta militare di Nuova Delhi riaccendono lo scontro tra due potenze nucleari. Il rischio di una spirale fuori controllo

Un pellegrinaggio insanguinato, un trattato sospeso, missili lanciati nella notte, e ora l’incubo della guerra. La crisi esplosa tra India e Pakistan nelle scorse settimane riporta il mondo davanti a una delle faglie più pericolose dell’equilibrio globale: il conflitto mai risolto tra due Paesi legati da storia, ferite e confini contesi, ma divisi da religione, ideologie e arsenali nucleari.

L’attacco del 22 aprile scorso contro un gruppo di pellegrini induisti nel Kashmir indiano – 26 i morti, tra cui donne e un turista nepalese – è stato per il governo di Narendra Modi la “linea rossa” superata. L’India ha accusato il Pakistan di ospitare e proteggere i responsabili. Da lì, una risposta militare a più livelli: sospensione del trattato sul fiume Indo, chiusura del valico di Attari, interruzione dei permessi speciali di viaggio, e infine i raid aerei dell’“Operazione Sindoor” contro almeno nove obiettivi nel Kashmir pakistano e in aree più interne del Punjab.

Islamabad ha replicato con durezza. Ha definito l’operazione un “atto di guerra”, denunciato la morte di almeno 31 persone, tra cui 26 civili, e promesso rappresaglie mirate. “Risponderemo colpendo obiettivi militari, non civili”, ha detto il ministro della Difesa. L’esercito pakistano, autorizzato ad agire “nel tempo e nei modi ritenuti opportuni”, ha iniziato a bombardare località lungo la Linea di Controllo, il confine de facto nel Kashmir. Alcuni jet indiani sarebbero stati abbattuti, secondo Islamabad.

Il rischio di escalation è concreto. India e Pakistan possiedono ciascuno tra le 140 e 150 testate nucleari, ma differiscono nella dottrina di impiego. L’India mantiene una linea di “no first use”, cioè non impiegare l’arma atomica per prima. Il Pakistan non ha mai assunto questo impegno. È proprio questa asimmetria a rendere la crisi attuale tanto pericolosa: se l’India vede l’attacco come parte della lotta al terrorismo, il Pakistan lo interpreta come una violazione della propria sovranità, e quindi come un casus belli.

Il Kashmir, epicentro della contesa, è una regione contesa fin dal 1947. È stato il motivo di tre guerre dichiarate, e di numerosi scontri armati. Più volte si è rischiata l’escalation, ma mai come oggi si è giunti a sospendere un trattato vitale come quello sulle acque del fiume Indo, la cui gestione è essenziale per l’agricoltura pakistana. L’acqua, in un’Asia sempre più assetata, è diventata un’arma geopolitica.

Sul piano interno, entrambi i governi hanno motivi per usare la crisi a proprio vantaggio. Narendra Modi rafforza la sua immagine di leader forte in un momento pre-elettorale. Il governo pakistano, guidato da Shehbaz Sharif, cerca di consolidare la propria legittimità interna dopo mesi di tensioni politiche e di scontri con i sostenitori dell’ex premier Imran Khan. In questo clima, l’esercito pakistano ha interesse a ricompattare l’opinione pubblica presentandosi come difensore della patria.

E la comunità internazionale? L’ha colta di sorpresa. Il presidente americano Donald Trump ha offerto una generica mediazione, senza prendere posizione. L’Unione Europea ha lanciato un appello alla calma. Cina, Russia e Turchia hanno espresso preoccupazione, ma nessuno sembra pronto a esercitare una pressione vera sulle parti. Eppure, in gioco non c’è solo la stabilità del subcontinente, ma l’intero equilibrio dell’Asia meridionale.

Questa crisi ci ricorda quanto sia fragile la pace, quando la memoria della violenza è ancora viva e le armi sono pronte. Non ci può essere pace senza giustizia, ma non può esserci giustizia senza dialogo. E il dialogo oggi sembra il grande assente.

Serve un’iniziativa diplomatica decisa, creativa, multilaterale. Non basta l’equidistanza. È necessaria una leadership internazionale che, con autorevolezza e fermezza, ricordi a India e Pakistan che ogni guerra tra fratelli è una ferita che non si rimargina. E che nel tempo del nucleare, l’errore di calcolo non lascia spazio alla redenzione.