In Francia, la cronaca di questi giorni ha riportato all’attenzione un caso che interroga profondamente la coscienza collettiva. Il tribunale amministrativo di Melun ha sospeso la decisione dell’Istituto Gustave-Roussy di Villejuif di applicare una “sédation terminale” a un paziente di 64 anni, Chabane Teboul, vittima di due arresti cardiaci che lo hanno lasciato in stato di coscienza minima. I medici avevano stabilito di interrompere l’alimentazione e l’idratazione e di iniziare una sedazione profonda e continua fino alla morte, invocando il principio della “non ostinazione irragionevole”. Ma la famiglia si è opposta e ha chiesto giustizia.
Il tribunale ha dato loro ragione, ordinando di proseguire i trattamenti «senza limitazione di durata». È una vicenda che non può lasciarci indifferenti, perché dice molto non solo del confine fragile tra cure e abbandono, ma anche del bisogno di ritrovare il significato autentico della dignità umana.
L’insegnamento cattolico
La Chiesa non è cieca davanti alla sofferenza: da sempre, attraverso il Magistero e i documenti come la dichiarazione Samaritanus Bonus (2020), riconosce la legittimità e l’obbligo morale di trattare adeguatamente il dolore, anche ricorrendo a farmaci che possono attenuare la coscienza, purché non vi sia l’intenzione di provocare la morte. È ciò che la tradizione chiama proporzionalità delle cure: quando un trattamento è ormai sproporzionato, invasivo o inutile, si può e si deve sospenderlo.
Ma c’è una differenza essenziale: non è mai lecito sospendere l’alimentazione e l’idratazione se non nel caso in cui l’organismo non sia più in grado di assimilarle. Cibo e acqua, anche somministrati artificialmente, non sono terapie straordinarie, ma sostegno vitale dovuto a ogni persona, perché fanno parte delle cure ordinarie di base.
Sedazione sì, ma non fino a “spegnere” la vita
Il caso francese lo mostra con chiarezza. Una sedazione progressiva, senza sintomi di dolore e in presenza di uno stato di semicoscienza, non è proporzionata: significherebbe non curare ma abbreviare. La sedazione palliativa è un atto d’amore quando serve ad alleviare sofferenze insopportabili; diventa eutanasia mascherata quando viene praticata in assenza di dolore, come strumento per accelerare la morte.
La voce delle famiglie
Colpisce la forza dei familiari, che hanno chiesto semplicemente che al loro caro fosse lasciata la possibilità di vivere ancora, anche in dipendenza totale. È la stessa voce che tante famiglie italiane conoscono quando accudiscono con dedizione malati in stato vegetativo o di minima coscienza. È il grido di chi afferma che la dignità non dipende dall’efficienza, ma dall’essere amati.
Una questione culturale
In fondo, si tratta di una questione culturale e spirituale: imparare a stare accanto ai malati, non a decidere quando la loro vita non vale più. La tentazione di considerare la fragilità come peso è forte, ma è lì che si misura la civiltà di un popolo.
E l’Italia?
Il dibattito francese ci riguarda da vicino. Anche in Italia, infatti, il tema del fine vita è aperto. La legge 38/2010 sulle cure palliative garantisce il diritto a non soffrire inutilmente, e la legge 219/2017 sul consenso informato ha introdotto strumenti come le DAT (disposizioni anticipate di trattamento). Ma il rischio è che, sotto la spinta di correnti culturali favorevoli all’eutanasia, si scivoli verso la confusione tra sollievo e soppressione.
La posizione cattolica rimane limpida: idratazione e alimentazione non sono terapie straordinarie da sospendere, ma sostegni vitali da garantire fino a quando il corpo è in grado di assimilarli. La sedazione è lecita solo per alleviare un dolore insopportabile, mai come “scorciatoia” per porre fine alla vita.
La vicenda francese ci ricorda che la medicina deve restare al servizio della vita, non arbitra della morte. È giusto lenire il dolore, ma non è mai giusto anticipare la morte di chi ancora vive. La speranza cristiana non ci chiede di prolungare a tutti i costi, ma di custodire sempre: perché ogni respiro, anche fragile e silenzioso, resta dono di Dio.