Nell’attuale fase della crisi globale, le teorie classiche della politica commerciale si mostrano sempre più inadeguate: tra ricette neoliberiste che promettono benessere attraverso il libero mercato e realtà fatte di diseguaglianze, povertà e precarietà strutturale, cresce la consapevolezza che la globalizzazione finanziaria non abbia mantenuto le sue promesse. Luciano Vasapollo smonta il mito dell’autoregolazione del mercato e propone un’analisi critica delle incoerenze teoriche che, sotto la maschera dell’efficienza, hanno alimentato uno scambio ineguale, sacrificando milioni di vite sull’altare della competitività globale.

Tra gli anni ‘80 e ‘90 si cercò di uscire dalla crisi attraverso la globalizzazione finanziaria e neoliberista dell’economia di mercato, che ha assolto principalmente al compito di creare un serbatoio di manodopera a bassi salari. È possibile quindi affermare che nel nostro periodo storico si assiste ad una competizione globale generata dall’aumento costante e graduale della competitività e della produttività del sistema economico.


L’iper-competizione globale si è sviluppata gradualmente negli anni e possiamo descriverla attualmente come la concorrenza che si è scatenata all’interno di un mercato rapido e dinamico, caratterizzata da un vantaggio/profitto che produce dei ritmi insostenibili. Alcuni fattori hanno portato le imprese a confrontarsi e a competere tra di loro per:
a) il miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni elettroniche;
b) l’innovazione tecnologica;
c) l’abbattimento delle barriere doganali;
d) i nuovi accordi internazionali politici ed economici.

Per molti paesi con economie avanzate è più facile stabilire il loro dominio sul mercato e sui territori, mentre per altri è molto più difficile a causa della scarsità di risorse, delle tecnologie più arretrate e dei processi di sviluppo ancora in atto. È proprio in questo contesto che è nata la distinzione fra paesi/ economie dominate e paesi/economie dominanti: nei primi avviene la produzione materiale con alto grado di sfruttamento della forza-lavoro mentre nei secondi avvengono la pianificazione e la progettazione del processo produttivo e le strategie di marketing dei prodotti. Nell’economia mondiale contemporanea, questa appropriazione viene definita con il termine scambio ineguale nel commercio internazionale.


Con l’avvento della globalizzazione e dell’iper-competizione iniziarono a svilupparsi anche numerosi effetti negativi come l’aumento della disoccupazione e della povertà, fenomeni il quale si dovrebbero affrontare con politiche sociali adeguate fino a quando i benefici degli scambi internazionali non inizieranno a consolidarsi. Da un punto di vista politico, tuttavia la strada migliore per lo sviluppo economico continua a favorire l’apertura del paese al mercato mondiale: l’eliminazione della protezione commerciale, l’apertura dei mercati finanziari e la privatizzazione delle imprese statali. Il neoliberismo dipinge i mercati come strutture sociali autoregolate che soddisfano in modo ottimale tutte le esigenze, utilizzano in modo efficiente tutte le risorse economiche e generano automaticamente la piena occupazione per tutte le persone che desiderano veramente lavorare.

Secondo la teoria del commercio standard internazionale:
a) le ragioni di scambio perdono valore quando una nazione ha un deficit commerciale;
b) la bilancia commerciale migliora quando le ragioni di scambio diminuiscono;
c) si sostiene che la povertà, la disoccupazione e le periodiche crisi economiche nel mondo esistano perché i mercati sono stati limitati dai sindacati, dallo Stato e da una serie di pratiche sociali radicate nella storia. Non si verificano perdite di posti di lavoro a seguito di questi adeguamenti.


Queste affermazioni si basano su due premesse cruciali:
a) quella che il libero scambio sia regolato dal principio dei costi comparativi;
b) e quella che la libera concorrenza porti alla piena occupazione in ogni nazione.
Il principio dei costi comparati ritiene che affinché lo scambio commerciale fra paesi sia conveniente, è sufficiente che vi sia un costo (o un vantaggio) comparato di produzione indipendentemente dal costo (o vantaggio) assoluto. Quindi, una nazione è obbligata a concentrarsi sulla produzione e l’esportazione di beni che sono relativamente più economici in patria.


La teoria dei costi comparati esposta poc’anzi presenta varie difficoltà a livello empirico poiché non riesce a prevedere correttamente le disuguaglianze presenti a livello salariale tra paesi avanzati e in via di sviluppo nei modelli commerciali, a causa delle differenti tecnologie adottate. Gli esperti, infatti, ritengono che non vi sia alcuna tendenza automatica alla piena occupazione nei paesi avanzati e riconoscono che questo persistente fallimento della teoria del commercio standard abbia minato la fiducia della sua intera struttura, diventando una parte fondamentale dei dibattiti moderni sui costi, sui benefici e sulle conseguenze che può provocare la globalizzazione all’interno dei processi di produzione.


I critici del neoliberismo però contestano tutte queste affermazioni e notano che i paesi ricchi hanno fatto molto affidamento sul protezionismo commerciale e sull’intervento statale. Ad esempio, già nel XIV e XV secolo, la Gran Bretagna promuoveva la sua industria principale, che era la produzione di prodotti di lana, tassando le esportazioni di lana grezza ai suoi concorrenti e cercando di attirare i loro lavoratori. Nel periodo di massimo splendore del suo sviluppo, dall’inizio del 1700 alla metà del 1800, utilizzò politiche commerciali e industriali simili a quelle impiegate in seguito dal Giappone alla fine del XIX e XX secolo e dalla Corea, nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Quando la Gran Bretagna diventò il leader del mondo sviluppato, iniziò a sostenere il libero scambio. I pensatori di spicco tedeschi e statunitensi sostenevano invece la protezione delle industrie emergenti. In effetti, anche se la Gran Bretagna predicava il libero scambio dopo il 1860, gli Stati Uniti erano letteralmente l’economia più protetta del mondo e rimasero tali fino alla fine della Seconda guerra mondiale.


Storie simili di protezionismo e intervento statale possono essere raccontate per la maggior parte del mondo sviluppato, tra cui Germania, Svezia, Giappone e Corea del Sud. In realtà la crescita moderna non è nemmeno legata al libero scambio, tassi di crescita più elevati nel settore manifatturiero sono stati tipicamente associati a tassi di crescita delle esportazioni più elevati, ma non esiste alcuna relazione statistica tra questi e il grado di restrizioni commerciali. Piuttosto, quasi tutta la crescita orientata all’esportazione è affiancata da politiche commerciali e di industrializzazione selettive. A questo proposito, la stabilità dei tassi di cambio e dei livelli dei prezzi nazionali sembra essere decisamente più importante della politica delle importazioni per produrre una crescita orientata all’esportazione di successo. Giappone, Corea del Sud e Taiwan sono i classici casi di sviluppo di successo attraverso l’applicazione di politiche commerciali altamente selettive. D’altra parte, il Cile, il Messico e l’Argentina (1991) hanno seguito una liberalizzazione su larga scala, che non solo ha spazzato via i settori deboli ma anche quelli potenzialmente forti, spesso con un grande costo sociale per un lungo periodo di tempo. L’economia cilena è cresciuta a meno dell’1% pro-capite dal 1973 al 1989. Il Messico ha subito battute d’arresto e rallentamenti analoghi e l’Argentina è finita impantanata in una profonda crisi. Ciò che è vero è che la crescita economica è correlata alla riduzione della povertà nei paesi in cui la distribuzione del reddito rimane stabile ma purtroppo, nei paesiin via di sviluppo, la distribuzione del reddito non risulta essere generalmente stabile; quindi, la crescita non produce necessariamente una riduzione della povertà.


Naturalmente, l’attuale crisi globale, le cui radici affondano nella finanziarizzazione globale che è parte integrante delle politiche neoliberiste, ha lasciato una scia di devastazione economica sul suo cammino. I critici della globalizzazione moderna concludono che la liberalizzazione del commercio imposta ai paesi in via di sviluppo ha in realtà portato ad una crescita più lenta, ad una maggiore disuguaglianza, ad un aumento della povertà globale e a ricorrenti crisi finanziarie ed economiche. Incolpano l’OMC, il FMI e la Banca Mondiale per le loro azioni crudeli e inette di fronte a tali miserie.

La critica alle politiche dell’OMC e del FMI continua a diffondersi in tutto il mondo e alla fine anche lo stesso FMI ha dovuto ammettere che, contrariamente alle rosee previsioni dei suoi modelli teorici, un esame sistematico dell’evidenza empirica porta alla conclusione che non c’è alcuna prova nei dati che la globalizzazione finanziaria abbia favorito la crescita nei cosiddetti paesi in via di sviluppo.