Il sogno, o l’incubo, di un “Grande Israele” sembra non essere più solo retorica estremista, ma una direzione politica concreta. L’attuale governo israeliano, con il primo ministro Benjamin Netanyahu al timone, sembra perseguire — dietro la retorica della sicurezza — un piano di ampliamento territoriale che ricorda antichi disegni biblici, ideologizzati però in chiave nazionalista. Nel silenzio assordante della comunità internazionale, Gaza muore e il Libano brucia. Che ne sarà dei cristiani in questa terra contesa? È possibile una pace giusta in uno scenario dove uno Stato si auto-percepisce come l’erede di una teocrazia tribale?

Il ritorno dell’antico Israele: sogno biblico o agenda politica?

Chi conosce la Bibbia e la storia d’Israele sa che l’idea del “Grande Israele” — dall’Eufrate al Nilo — ha radici nelle promesse fatte da Dio ad Abramo (Genesi 15,18) e nelle conquiste di Davide e Salomone (2Samuele 8; 1Re 4). Ma ciò che era narrazione teologica per il popolo in esilio, oggi diventa narrazione politica per un’élite ideologica che vuole trasformare quei testi sacri in legittimazione geopolitica.

L’attuale governo israeliano, sostenuto da frange religiose ultraortodosse e nazionaliste, guarda con simpatia a questa visione: l’annessione progressiva della Cisgiordania (ribattezzata Giudea e Samaria), la destabilizzazione permanente del Libano meridionale, e l’interesse strategico verso le alture del Golan e oltre. È un disegno pericoloso, tanto per Israele quanto per i suoi vicini.

Il silenzio su Gaza: anestesia morale dell’Occidente

Perché nessuno dice nulla sulla strage quotidiana di Gaza?

In parte perché i media occidentali hanno progressivamente accettato la logica della “guerra al terrore”, e in parte perché la colpa collettiva dell’antisemitismo europeo del Novecento ha prodotto un tabù: non si può criticare Israele senza essere accusati di antisemitismo. Questo blocco morale ha paralizzato la capacità di giudizio e ha permesso a Netanyahu di condurre operazioni militari devastanti — definite “difensive” — che però uccidono decine di migliaia di civili, di cui oltre la metà sono donne e bambini.

Il recente attacco a Gaza non è solo una rappresaglia, è una forma di punizione collettiva che il diritto internazionale vieta. Ma il diritto, quando non è tutelato da una comunità internazionale coerente, resta lettera morta.

Netanyahu: tra impunità e idolatria nazionale

Netanyahu è sopravvissuto a crisi politiche, proteste interne, e procedimenti giudiziari per corruzione. Come? Trasformandosi da politico a simbolo nazionale.

La guerra lo ha reso intoccabile, e l’identificazione tra Stato, religione e leader ha prodotto un culto della personalità inedito nella storia democratica di Israele. È come se il paese avesse accettato una sospensione della democrazia in nome della sopravvivenza. Ma a che prezzo?

Dietro il consenso apparente, cresce l’odio. In Cisgiordania, nei campi profughi, nelle periferie di Beirut e Damasco, 

l’immagine di Israele si è oscurata. Un popolo che nasceva come “luce delle nazioni” (Is 42,6) rischia oggi di essere percepito solo come “fuoco che divora”.

Cristiani in pericolo: minoranza tra due fuochi

E i cristiani?

Quelli arabi di Gaza sono stati quasi sterminati. I cristiani di Betlemme, Gerusalemme Est, Nazaret, vivono in una crescente emarginazione. La loro identità è diventata un bersaglio: troppo arabi per essere difesi da Israele, troppo cristiani per essere protetti dal mondo musulmano. In Libano, Siria e Iraq, sono già scomparsi interi villaggi e diocesi. In Terra Santa si teme che il prossimo decennio sarà quello dell’estinzione cristiana, a meno di un radicale cambiamento.

È il paradosso di una terra che ha dato i natali al Vangelo, ma in cui i discepoli di Gesù sono ormai ospiti tollerati, se non indesiderati.

Un unico grande Stato ebraico? La tentazione dell’apartheid teologico

Lo scenario che si sta delineando è quello di un unico Stato, ebraico per definizione, dove le minoranze (musulmani, cristiani, drusi) rischiano di essere solo comparse.

La formula “due popoli, due Stati” sembra tramontata. Al suo posto avanza una prospettiva unitaria, ma diseguale: un unico Israele dove chi non è ebreo, semplicemente, non ha pari diritti. Si profila un sistema che alcuni studiosi non esitano a chiamare apartheid.

Ma c’è di più: la retorica di molti esponenti del governo attuale parla di “redenzione”, di “terra promessa”, di “purificazione”. Sono termini religiosi, applicati alla geopolitica. Ma la teologia biblica non è un’arma per giustificare l’esclusione: è parola di Dio per la salvezza di tutti. Quando la si piega a fini etnici o militari, si commette idolatria.

Cosa resta della promessa di pace?

“Shalom” è la parola più densa della lingua ebraica. Ma oggi, in Medio Oriente, quella parola è stata svuotata.

I cristiani non possono rimanere in silenzio. Non per schierarsi con una parte, ma per ricordare che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è un Dio nazionalista. È il Dio dei poveri, degli oppressi, dei profughi. È il Dio che si è fatto uomo per morire crocifisso — non per sterminare gli altri in suo nome.

La pace come profezia e responsabilità

Il rischio maggiore non è solo geopolitico, ma spirituale.

La Terra Santa rischia di diventare la terra del cinismo. E quando una fede perde la capacità di scandalizzarsi, muore.

Il compito delle Chiese, e in particolare della Santa Sede, non è solo diplomatico, ma profetico: restituire voce ai silenziati, custodire la presenza cristiana, e dire a Israele — come un tempo i profeti a Davide e Salomone — che non tutto ciò che è possibile è giusto, e non tutto ciò che è biblico è evangelico.

Nota finale

Non esiste “l’antico Israele” da restaurare. Esiste l’uomo da salvare. E il Regno che il Signore ha promesso non si conquista con le armi, ma si accoglie come dono. Chi in nome della Bibbia giustifica l’esclusione, ha smesso di leggerla col cuore di Dio.