DOSSIER: Il quotidiano francese di ispirazione cristiana “La Croix” ha condotto un’inchiesta giornalistica sui sacerdoti africani all’estero dopo lo scalpore di due preti camerunesi che non hanno voluto lasciare gli USA per ritornare nel loro Paese.

I preti africani, sempre più numerosi fuori dal loro continente e presenti soprattutto in Francia, attirano interesse e curiosità. 

Alcuni malpensanti mettono in discussione la loro retta intenzione, scadendo nel luogo comune del “business dell’offerta religiosa”. È un giudizio ingrato e affrettato, in alcuni casi velatamente razzista o anticlericale, verso pastori zelanti che invece suffragano l’invecchiamento e la diminuzione del clero in Europa.

Il fenomeno è poi connesso con la tendenza demografica della crescita dei battezzati e della Chiesa che vede l’Africa al primo posto su scala globale. 

L’Asia accresce il numero dei suoi fedeli cristiani, ma si è ancora lontani dalle cifre dell’Africa, dove l’accoglienza del Vangelo e del cristianesimo sembra trovare meno resistenze culturali che in Estremo Oriente, salvo il caso delle Filippine.

Le scorse settimane circolava sul Web una lettera del vescovo della diocesi di Buéa, nel sud-ovest del Camerun, che sospendeva dal ministero due dei suoi sacerdoti in missione in una diocesi degli Stati Uniti che si sarebbero rifiutati di tornare alla loro diocesi di origine in Camerun, nonostante le ingiunzioni del loro vescovo.

I social network camerunesi hanno colto bene questa storia per fare il processo al clero sempre più apertamente criticato per i suoi errori reali o immaginari. 

Se il vescovo di Buéa fa il suo dovere richiamando in diocesi i suoi due sacerdoti, il loro rifiuto di tornare potrebbe essere l’albero che nasconde la foresta di quello che assomiglia a un traffico di missionari tra vescovi africani e vescovi occidentali in mancanza di sacerdoti. E bisogna parlarne.

Circa 3 000 sacerdoti stranieri in Francia

Se prendiamo solo il caso della Francia, si stima che ci siano circa 3000 il numero di sacerdoti stranieri in missione in questo paese. 

I sacerdoti africani da soli rappresentano l’80% di questo numero, ovvero circa 2.400 sacerdoti africani che officiano in Francia. 

Dopo l’evangelizzazione dell’Africa da parte dei missionari europei potrebbe essere lo scambio dei doni, ma le cose probabilmente non sono così semplici.

In linea di principio, l’invio di un sacerdote in missione in un’altra diocesi è oggetto di un accordo tra due vescovi e gli scenari sono vari. 

Alcuni sono in missione di studio ma devono dedicare un po’ del loro tempo alla pastorale per poter pagare gli studi. Altri sono partiti per curarsi ma sono costretti dalla malattia a rimanere in Occidente per una migliore cura e si trovano quindi di fatto impegnati nella pastorale della loro diocesi ospitante.

Altri ancora sono partiti per gli studi o per la pastorale e alla fine si sono sottratti all’autorità del loro vescovo per un motivo o per l’altro. 

Un vescovo che prende la guida di una diocesi ha spesso difficoltà ad assumere alcune decisioni del suo predecessore, il che porta a molti conflitti. 

Molti vescovi alla fine risolvono di lasciare in Occidente un sacerdote che resiste all’appello di tornare nella diocesi. 

Questo è una tensione in meno.

Nella maggior parte dei casi, sono relazioni personali tra un vescovo africano e un vescovo europeo che promuovono la cooperazione missionaria tra le rispettive diocesi, secondo modalità stabilite di comune accordo. 

Ma spetta al vescovo africano la responsabilità di scegliere tra i suoi sacerdoti o religiose chi va in missione in Occidente e per quanto tempo.

Ma vediamo sempre più imporsi un modello di invio in missione all’estero – e questo non è specifico per l’Africa – che assomiglia più a una transazione che a una cooperazione missionaria disinteressata. 

Questo è un modello che coinvolge diversi livelli anche di aiuti economici.

Aiuti economici

Secondo il quotidiano “La Croix” il primo livello è quello della negoziazione tra i due vescovi: “Mi mandi alcuni dei tuoi sacerdoti in missione e io contribuisco finanziariamente al bilancio del tuo seminario o della tua diocesi”.

In linea di principio, questo primo livello è pacifico perché i vescovi di alcune diocesi in Africa, specie di recente costituzione, hanno molte difficoltà a mantenere i loro seminari. 

Il secondo livello di aiuto economico è invece più problematico. 

Il sacerdote africano o asiatico viene mandato all’estero, ma una parte del suo reddito missionario in Occidente viene donata direttamente al suo vescovo. 

Questo è l’accordo che avevano raggiunto prima dell’invio in missione.

Il denaro in gioco

Ciò che pone il problema è il movente dell’invio in missione. 

Quali sono i criteri che presiedono alla scelta del sacerdote da inviare in missione? 

La sua idoneità alla missione all’estero o la sua idoneità a rispettare le clausole dell’accordo? O entrambi?

Quando il denaro entra in gioco in una cooperazione missionaria, qual è la posta in gioco?

Il quotidiano “La Croix” si chiede perché molti preti resistono quando sono chiamati a tornare in diocesi o almeno non hanno fretta di lasciare l’Occidente.

Una delle ragioni principali di questa resistenza è economica.

 La condizione materiale del sacerdote africano in missione in Occidente è di gran lunga superiore a quella dei confratelli rimasti in Africa, il che suscita molte velleità. 

La missione in Occidente è spesso un’opportunità per guadagnare qualche reddito in più prima di tornare alla sua diocesi di origine. 

Non c’è niente di male in questo, ma si capisce perché l’invio in missione in Occidente è ampiamente percepito negli ambienti clericali come un privilegio di cui beneficerebbero solo pochi favoriti dell’Ordinario del luogo. 

In mancanza di un invio in missione di lunga durata, il numero di sacerdoti africani richiesti per fare sostituzioni nelle parrocchie occidentali durante l’estate è in aumento.

La Chiesa in Africa deve seriamente esaminare la questione della cooperazione missionaria con l’Occidente, tanto più che questa è spesso a scapito dei bisogni missionari in altri paesi africani.

Se le ricadute finanziarie prendono il sopravvento sulla vocazione missionaria, tutto è distorto a favore del denaro che “non è mai abbastanza”.

La componente finanziaria di questi scambi è denunciata – in una tribuna pubblicata da La Croix Africa – dal padre gesuita Ludovic Lado, che è preoccupato per le derive di un tale modello.

Già nel 2018, monsignor Ignace Bessi, allora presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici della Costa d’Avorio (Cecci), denunciava già il fenomeno dei “preti senza alcun legame, che vagavano nelle diocesi della vecchia cristianità in Occidente”, attaccando così questi sacerdoti africani che si rifiutano di tornare nella loro diocesi di origine.

Per padre Vast-Amour Adjobi, in missione in Francia da dieci anni, queste situazioni si verificano tuttavia anche quando c’è un tradimento della fiducia da parte del sacerdote, o una mancanza di benevolenza o trasparenza da parte di uno dei due vescovi.

Quanti di coloro che vengono inviati in missione all’estero – americano ed europei compresi – hanno veramente una vocazione missionaria come San Paolo o San Francesco Saverio? 

Esistono anche modelli positivi.

Ciò che ha fatto la Nigeria merita attenzione. 

La Chiesa cattolica in Nigeria ha creato un’intera società missionaria che ha un proprio seminario dove vengono accolti solo candidati che hanno una vocazione propriamente missionaria. 

Si tratta della Missionary Society of Saint Paul che ha migliaia di missionari in carica in tutta l’Africa come in Occidente. 

Tutti i sacerdoti mandati in Occidente ovviamente non si rifiutano di tornare.

 “Non conosco un prete africano in missione in Occidente che si rifiuti di tornare in patria nonostante l’ingiunzione del suo vescovo”, assicura padre Adéchina Samson Takpé, sacerdote della diocesi di Dassa-Zoumé in Benin. In missione in Germania dal 2017, mette in guardia contro le “generalizzazione abusive”.

Padre Émile Dione, sacerdote senegalese sulla sessantina, è fuori discussione rimanere nel Finistère alla fine della sua missione.“Non capisco che si possa disobbedire al proprio vescovo, tradire la propria vocazione per vivere in Occidente”.

Ritiene che questo tipo di comportamento rafforzi la stimmatizzazione di cui a volte sono vittime i preti dell’Africa.

 “Personalmente, – dice P. Émile – partirò dalla Francia, tra due anni con gli stessi vestiti, lo stesso zaino per guidare la stessa vecchia macchina nella mia diocesi,aggiunge. Non sono venuto qui per arricchirmi”. 

Rimane l’interrogativo su come sono accompagnate oggi le vocazioni dall’Africa.

Questa domanda merita riflessione in quest’ora in cui il Sinodo sulla sinodalità si è appena tenuto a Roma. 

Non dimentichiamolo, la Chiesa ha una vocazione essenzialmente missionaria. 

Ma cosa si intende per missione oggi?