La foto di migranti ammanettati e in fila per essere deportati, pubblicata con orgoglio sui canali ufficiali della Casa Bianca, sembra uno scatto d’altri tempi. Eppure è un’immagine che racconta il nostro presente, segnato da una deriva che non solo normalizza la violenza contro gli ultimi, ma la celebra come un traguardo politico. Non è solo disumanità: è cattiveria consapevole, un godimento perverso nel trasformare la sofferenza altrui in senso comune, come sottolineava una giovane attivista parlando delle mobilitazioni anti-Rom nel proprio quartiere.

Questa cattiveria non si limita a colpire i migranti, ma si spinge a riscrivere le fondamenta stesse della cittadinanza e della democrazia. L’abolizione dello ius soli, promessa dal governo americano come parte di un’agenda più ampia, rappresenta un attacco diretto all’inclusività e alla pluralità che sono alla base degli Stati Uniti moderni. Questo principio, sancito dal Quattordicesimo Emendamento, non è solo un meccanismo per garantire la cittadinanza a chi nasce sul suolo americano: è il simbolo della lotta per l’uguaglianza che ha attraversato la storia del paese, dall’abolizione della schiavitù alle battaglie per i diritti civili.

Il Quattordicesimo Emendamento e il diritto negato

Varato subito dopo la Guerra Civile, il Quattordicesimo Emendamento aveva un significato radicale: riconoscere come cittadini gli afroamericani, fino ad allora esclusi da ogni diritto. Cancellare questo principio, anche solo ideologicamente, significa mettere in discussione la cittadinanza stessa di chiunque non sia considerato “puro” dal punto di vista del sangue e della discendenza. Non si tratta solo di negare un passaporto, ma di negare un’identità, una storia e una dignità.

La clausola del Quattordicesimo Emendamento che garantisce che “nessuna persona” possa essere privata di vita, libertà o proprietà senza un giusto processo, appare oggi svuotata di significato. Le deportazioni di massa, gli arresti senza mandato e le operazioni dell’ICE violano apertamente questo principio, ma trovano giustificazione in un uso strumentale della legge. La distinzione tra governo federale e singoli Stati, usata per aggirare le protezioni costituzionali, non è altro che un trucco per mascherare l’autoritarismo sotto una patina di legalità.

Deportazioni come propaganda

Il messaggio “Promessa fatta, promessa mantenuta”, pubblicato insieme alla foto dei migranti deportati, non è solo un atto di propaganda: è una dichiarazione di intenti. Le deportazioni non vengono solo giustificate, ma ostentate come un trofeo politico. E il fatto che queste operazioni si concentrino in città-santuario, simbolo della resistenza all’agenda di Trump, mostra chiaramente che non si tratta solo di far rispettare la legge, ma di distruggere ogni forma di solidarietà e tutela per i migranti.

Gli effetti di questa politica sono devastanti non solo per chi viene deportato, ma per le comunità che rimangono. La paura si diffonde, spingendo le persone a vivere nell’ombra, rinunciando a diritti fondamentali come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Le retate e le espulsioni colpiscono indiscriminatamente, come dimostrano i casi di cittadini arrestati e deportati, veterani umiliati e famiglie spezzate. Anche il tessuto sociale ne risente, come dimostrano episodi apparentemente marginali, come l’abbandono di animali domestici da parte di famiglie costrette a fuggire.

Verso una società del sospetto

L’atmosfera di odio e controllo è alimentata anche da iniziative come il numero verde per denunciare i migranti irregolari, che ricorda inquietanti pratiche del passato, dalla Stasi al Ku Klux Klan. Il messaggio è chiaro: la delazione diventa un dovere patriottico, il sospetto una virtù. Questo clima favorisce non solo la disumanizzazione dei migranti, ma anche la radicalizzazione di gruppi estremisti, che si sentono legittimati a diffondere volantini razzisti e a minacciare direttamente le comunità di stranieri.

Una crisi globale di umanità

Quello che sta accadendo negli Stati Uniti non è un caso isolato. Anche in Europa, politiche simili stanno diventando la norma, con governi che si vantano del numero di espulsioni e chiusure delle frontiere. L’Italia, ad esempio, ha scelto più volte di imitare il peggio dell’agenda americana, dimenticando che i principi di umanità e accoglienza dovrebbero essere alla base di una società civile.

Questo ritorno al “diritto di sangue” non è solo un attacco ai migranti, ma un attacco a tutti noi. Minando i principi di uguaglianza e giustizia, queste politiche rendono tutti più vulnerabili, trasformando i diritti in privilegi riservati a pochi eletti. La democrazia inclusiva e molteplice che gli Stati Uniti rappresentavano rischia di essere sostituita da un sistema autoritario che premia la paura e la divisione.

La resistenza è necessaria

Di fronte a questa deriva, la resistenza non può essere solo politica, ma anche culturale e morale. Dobbiamo ricordare che i diritti non sono concessioni, ma conquiste frutto di lotte e sacrifici. Dobbiamo opporci alla normalizzazione della cattiveria e rivendicare l’umanità come valore fondamentale. E dobbiamo farlo non solo per chi oggi è perseguitato, ma per garantire un futuro in cui nessuno possa essere privato della propria dignità e libertà.