Indagare la relazione strutturale tra conflitto e paura nella contemporaneità, interpretando tali fenomeni alla luce del magistero sociale di Papa Francesco, delle scienze sociali e dei modelli di trasformazione nonviolenta. Lungi dall’essere meri sintomi di crisi, conflitto e paura si rivelano dispositivi profondi della cultura politica e sociale del nostro tempo, capaci di orientare scelte collettive, strutturare le istituzioni e deformare le relazioni. Si propone una lettura critica della paura come strumento di controllo e come fondamento implicito delle logiche di esclusione e di dominio, evidenziando il ruolo della “pedagogia dei muri” e delle retoriche securitarie nella frantumazione del principio di fraternità. In contrappunto, viene delineata una prospettiva alternativa fondata sull’ecologia integrale e sulla pedagogia della fiducia, nella quale il conflitto è riconosciuto come luogo possibile di rigenerazione relazionale, giustizia e riconciliazione.

La paura è una delle esperienze fondative dell’umano. Essa precede e attraversa le architetture della razionalità, si annida nelle pieghe più profonde della coscienza collettiva e individuale, e si manifesta, nel tempo storico, come forza ambivalente: energia di sopravvivenza o principio di esclusione, motore della coesione o leva del dominio. In un’epoca segnata dall’interdipendenza globale ma anche dall’accentuarsi di nuove forme di disgregazione, la paura si fa struttura e si deposita nei linguaggi, nelle istituzioni, negli immaginari. Essa diventa, per usare un lessico sociologico, una categoria performativa: plasma la percezione del reale, orienta le scelte politiche, modella il diritto e l’economia. Papa Francesco, nella prima sezione dell’enciclica Fratelli Tutti, ha offerto una lettura lucida e profetica di questa dinamica, rilevando come molte delle attuali forme di conflitto siano radicate in una paura organizzata, mediaticamente alimentata, strumentalmente manovrata. La violenza non nasce soltanto da odi ideologici o rivalità storiche: essa si nutre di una paura che, diventata sistema, produce chiusura, sospetto, delegittimazione dell’altro. Si tratta di una paura che non chiede di essere compresa, ma repressa o esorcizzata; che non sollecita un’elaborazione etica, bensì un immediato riflesso difensivo. Essa è il terreno fertile per quella “cultura dei muri” che segna il tramonto del principio di fraternità e l’erosione del legame sociale.

Il conflitto, in tale cornice, non si manifesta come occasione trasformativa, ma come sintomo di una frattura profonda. Se è vero che la tensione tra posizioni differenti è connaturata alla vita delle comunità e, in determinate circostanze, può costituire un elemento di rinnovamento, è altresì evidente che, in assenza di un orizzonte condiviso, il conflitto degenera in disintegrazione. Quando viene meno la fiducia in una comune appartenenza – sia essa politica, culturale o semplicemente umana – il conflitto perde il suo carattere dialogico e assume i tratti di una contrapposizione sterile. 

L’analisi del conflitto

In questo contesto, l’analisi del conflitto non può limitarsi alla descrizione degli eventi, ma deve diventare strumento critico per interpretare i meccanismi profondi che li generano. Il paradigma della conflict analysis, elaborato nell’ambito delle pratiche di trasformazione nonviolenta, propone un approccio sistemico che individua quattro assi fondamentali: il profilo del contesto, gli attori coinvolti, le cause (strutturali, dirette e scatenanti) e le dinamiche. Questo modello consente di sfuggire alla semplificazione binaria dei conflitti e di coglierne la complessità stratificata. La paura, in tale prospettiva, non è soltanto effetto, ma anche causa e catalizzatore: essa alimenta la radicalizzazione, irrigidisce le identità, predispone alla delegittimazione dell’avversario. Laddove manca una lettura strutturale dei conflitti, prevale una logica dell’emergenza che giustifica il ricorso alla forza, alla repressione, alla sorveglianza generalizzata. È proprio questo il punto cruciale messo in evidenza dalla migliore dottrina: la paura, quando non è compresa ma solo evocata, produce una paralisi cognitiva e alimenta dispositivi politici che si nutrono del suo potere disgregante. La distinzione fra pericolo, rischio e minaccia è, in questo senso, un criterio ermeneutico fondamentale. Il pericolo si riferisce a eventi naturali, privi di intenzionalità; il rischio è invece legato a scelte umane che implicano una finalità positiva, pur comportando elementi d’incertezza; la minaccia, infine, implica una volontà distruttiva. Laddove tali distinzioni vengono obliterate, lo spazio della riflessione pubblica si contrae e l’agire politico si riduce a reazione. Si crea così una “società della paura”, nella quale i confini tra realtà e percezione si fanno sempre più sfumati, e la politica cede il passo a una gestione emotiva dell’insicurezza. Questo fenomeno si manifesta con particolare evidenza nella costruzione sociale del nemico: ciò che è diverso, ciò che è sconosciuto, ciò che proviene da “fuori”, diventa immediatamente pericoloso. Le antiche paure ancestrali, lungi dall’essere superate dal progresso tecnico-scientifico, si riorganizzano in nuove forme. Il confine, il muro, il checkpoint diventano metafore dominanti. Lo straniero – reale o simbolico – è percepito non come ospite, ma come invasore; non come volto, ma come minaccia. In tal modo, la paura svolge una duplice funzione: rafforza il controllo sociale e legittima l’esclusione. Ma, come ammonisce Fratelli Tutti, chi costruisce muri finisce per restarne prigioniero. Laddove l’incontro è evitato, la libertà si restringe; laddove l’altro è percepito solo come antagonista, l’identità si svuota e si irrigidisce in caricatura. Accanto alla dimensione geopolitica della paura, esiste una sua declinazione sociale e microsistemica, altrettanto rilevante. Quando il tessuto comunitario si indebolisce, quando le istituzioni perdono credibilità, quando il sistema economico crea sacche di abbandono e precarietà strutturale, la paura si radica nelle vite quotidiane come condizione permanente. È in questo humus che si sviluppano forme deviate di organizzazione sociale, come le mafie, che si presentano come protettrici dei dimenticati. Esse offrono sicurezza in cambio di dipendenza, identità in cambio di obbedienza, comunità in cambio di silenzio. Tale “pedagogia mafiosa”, come la definisce il Pontefice, è l’ennesima configurazione della paura istituzionalizzata: una paura che non genera consapevolezza, ma subordinazione; che non apre al cambiamento, ma consolida la rassegnazione. Anche in questo caso, la conflict analysis suggerisce di identificare non solo gli attori direttamente coinvolti, ma anche coloro che traggono vantaggio dallo stato di conflitto permanente: i profittatori della guerra, dell’instabilità, della frammentazione. Questi soggetti, spesso invisibili o normalizzati, si oppongono attivamente alla trasformazione del conflitto, poiché essa minaccerebbe il loro potere e le loro rendite. Per questo, ogni autentico processo di pace richiede un’opera di smascheramento, una pedagogia della verità che sappia far emergere le connessioni occulte tra paura e potere, tra insicurezza e controllo, tra disuguaglianza e violenza.

Verso la pedagogia della fiducia

La risposta a tale scenario non può essere un ritorno ingenuo all’armonia presunta, né una neutralizzazione tecnica del conflitto. Al contrario, essa deve assumere la forma di una pedagogia della fiducia e della responsabilità, fondata su una rinnovata antropologia della relazionalità. In questa prospettiva si colloca l’appello del magistero contemporaneo a un’“ecologia integrale”: una visione del mondo nella quale la cura della casa comune – come proposto nella Laudato si’ – è inseparabile dalla cura delle relazioni umane e delle istituzioni giuste. La fraternità non è sentimento astratto, ma principio strutturante di una società equa, inclusiva, dialogica. Disarmare le paure non significa ignorarle o stigmatizzarle, ma attraversarle con discernimento. La vera sicurezza non nasce dalla chiusura, ma dalla giustizia; non dalla sorveglianza, ma dalla coesione sociale; non dalla forza, ma dalla fiducia. Solo in una società in cui ogni essere umano è riconosciuto come soggetto di diritti, partecipe del destino comune e corresponsabile del bene collettivo, il conflitto può essere trasformato da detonatore di violenza a occasione di rigenerazione. In ultima istanza, la paura può essere redenta: non eliminata, ma convertita; non rimossa, ma narrata; non sfruttata, ma educata. È questo il compito etico di ogni cultura che voglia dirsi umana: abitare il conflitto senza esserne prigionieri, e fare della fragilità dell’altro non il luogo della minaccia, ma il segno della nostra comune dignità.