Un caso che divide l’Italia

Da qualche giorno l’Italia si interroga su una casetta sperduta tra le colline d’Abruzzo, un po’ fiabesca e un po’ ostinata, arrampicata su un lembo di bosco che guarda la Majella. È lì che tre bambini – otto anni la più grande, sei i gemelli – sono cresciuti come piantine selvatiche, senza luce, senza acqua corrente, senza scuola, senza le comodità della modernità. Ma anche, inevitabilmente, senza le sue tutele.

I genitori, Nathan e Catherine, non sono sprovveduti né asceti improvvisati: hanno un passato internazionale, idealista, errante. Lui, tatuato nella memoria dalla foresta di Sumatra devastata dal disastro ecologico; lei, un’australiana che insegnava equitazione. A un certo punto hanno creduto che la vita “autentica” consistesse nel sottrarsi all’artificio e riconsegnare i figli alla natura, come se fosse una madre più robusta della civiltà.

Così hanno costruito una piccola utopia domestica, in cui i bambini imparavano dagli alberi invece che dai banchi, dal fuoco invece che dal gas, dall’istinto invece che dal metodo. Finché lo Stato, chiamato in causa da un’intossicazione da funghi, ha bussato alla porta. E ha detto: basta.

La linea che non sappiamo più tracciare

La decisione del Tribunale per i minorenni dell’Aquila – sospensione della responsabilità genitoriale, nomina di un tutore provvisorio, trasferimento in una casa famiglia – è giuridicamente impeccabile. Ma sul piano culturale ed emotivo ha aperto una voragine: dov’è il confine?

Dove passa quella linea sottilissima tra libertà educativa e pericolo?

Tra stile di vita alternativo e trascuratezza?

Tra biodiversità delle scelte familiari e uniformità imposta dallo Stato?

Gli stessi giudici lo scrivono: la vita nel bosco, pur animata da buone intenzioni, “lede il diritto alla vita di relazione” dei minori e può generare “gravi conseguenze psichiche ed educative”. Una constatazione dura, che trasforma un ideale ecologista in un atto potenzialmente dannoso. Perché la natura integra, da sola, non basta.

La legge, però, non giudica le intenzioni – valuta le condizioni:

abitazione priva di sicurezza, rifiuto di accertamenti sanitari, mancanza di verifiche antisismiche, nessuna rete di supporto.

Ed è qui che la fiaba del bosco finisce e comincia la responsabilità pubblica.

La storia della famiglia anglo-australiana ritirata nei boschi d’Abruzzo riaccende il dibattito su libertà educativa e tutela dei minori: tra una scelta di vita radicale, condizioni abitative al limite e l’intervento dello Stato, l’Italia si scopre incapace di tracciare il confine tra autonomia e abbandono.

L’Italia che processa tutto: dai genitori allo Stato, dai giudici agli assistenti sociali

Questa storia arriva mentre ancora piangiamo Giovanni, ucciso dalla madre per strada a Muggia, ed Elia, soffocato nel sonno a Lecce. In quei casi, si è detto: “Perché non li hanno tolti alla famiglia?”.

Nel caso dei bambini del bosco, si urla: “Perché li hanno tolti?”.

Lo stesso Paese, la stessa piazza digitale, la stessa rabbia speculare.

Siamo diventati un tribunale emotivo incapace di tenere insieme la complessità.

Gli assistenti sociali, quando parlano, lo fanno con una lingua che spesso ignoriamo: quella delle risorse mancanti.

  • Mancano i consultori familiari – ne abbiamo metà di quanti sarebbero necessari.
  • Mancano gli assistenti sociali – oltre 1.000 in meno del minimo essenziale, quasi 2.700 se si conteggiano i precari.
  • Mancano équipe multidisciplinari – psicologi, educatori, medici, figure essenziali.
  • Manca omogeneità territoriale – Bolzano spende 462 euro l’anno per la spesa sociale; alcune zone del Sud, 15.

La verità è che pretendiamo miracoli da un sistema che spesso opera con gli spiccioli, e che interviene quasi sempre troppo tardi: quando la tragedia è già vicina, o quando la denuncia diventa inevitabile.

E così il dibattito diventa paradossale: se un bimbo resta in famiglia, è perché “non hanno fatto nulla”; se un bimbo viene tolto, è perché “i servizi portano via i bambini”. Una nazione che ragiona così non protegge i minori: li trasforma in simboli, in bandiere da agitare.

Il bosco, metafora del nostro smarrimento

La vicenda di Palmoli non è solo una storia di genitori alternativi e di giudici severi. È la parabola di un Paese che ha perso il senso della misura. Da un lato, la fascinazione romantica per il ritorno alla terra; dall’altro, la burocratizzazione estrema della tutela.

L’una produce utopie ingenue. L’altra, diffidenze automatiche. In mezzo stanno i bambini, che non sono idee: sono persone.

La natura educa, ma non socializza. La libertà è un bene, ma non se diventa isolamento.

L’amore dei genitori è indispensabile, ma non è sufficiente se mancano sicurezza, sanità, relazioni, alfabetizzazione sociale.

I bambini del bosco non sono vittime di genitori crudeli: sono figli di una scelta troppo grande per spalle così piccole.

Fine della favola (e inizio del lavoro serio)

Né il romanticismo dei genitori né il legalismo dello Stato, da soli, bastano a costruire un’infanzia. Serve altro: una rete comunitaria, uno sguardo integrato, una presenza costante. Quella che oggi non siamo più in grado di garantire.

Se davvero vogliamo che tragedie e smarrimenti non si ripetano, dobbiamo smettere di pensare in termini di colpevoli e innocenti, e cominciare a chiederci che cosa manca al nostro sistema di protezione: risorse, coordinamento, continuità, ascolto.

La storia dei bambini del bosco finirà nelle carte giudiziarie. Ma il suo significato resterà per molto: un avvertimento per tutti noi.

Perché in fondo questa vicenda non parla solo di tre piccoli cresciuti tra gli alberi.

Parla del bosco in cui, da anni, camminiamo tutti: un bosco di solitudini, di servizi fragili, di rabbie istantanee, di giudizi affrettati.

E di una domanda che rimane sospesa, come il profilo della Majella all’alba:

Sappiamo ancora riconoscere il confine tra libertà e abbandono?

Se non impariamo a farlo, i prossimi bambini smarriti non saranno in un bosco. Saranno nel cuore delle nostre città. E non li vedremo arrivare.