Un incontro che doveva rilanciare i rapporti tra Stati Uniti e Sudafrica si è trasformato in un episodio imbarazzante per la diplomazia internazionale. Cyril Ramaphosa resiste con dignità e ironia alla spettacolarizzazione voluta da Trump, il quale tenta di rovesciare la narrazione sul genocidio in atto a Gaza per colpire chi ha osato denunciarlo.

Una scena già scritta, un copione ideologico

Il faccia a faccia tra Donald Trump e Cyril Ramaphosa si è consumato il 21 maggio alla Casa Bianca. Ma più che un vertice tra capi di Stato, l’incontro ha avuto l’impronta di una messa in scena a uso e consumo della propaganda. Il presidente americano ha proiettato durante l’incontro un video di propaganda che denuncia un presunto “genocidio bianco” in Sudafrica, con immagini drammatiche, montate ad arte, riferite agli attacchi contro agricoltori bianchi.

La realtà, secondo numerosi report indipendenti e fonti locali, è ben diversa. In Sudafrica la violenza colpisce trasversalmente, e le vittime sono soprattutto tra le fasce più povere della popolazione nera. Ma questo non interessa a Trump, che vuole delegittimare il Sudafrica proprio ora che il Paese ha osato sfidare il potere israeliano e statunitense in sede internazionale.

Il nodo: la Corte penale internazionale

Il Sudafrica è stato infatti il primo Paese al mondo a presentare formale denuncia contro il governo di Benjamin Netanyahu presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia, per tentato genocidio nella Striscia di Gaza. Un gesto forte, che ha trovato ampia eco nel Sud globale e nelle piazze di mezzo mondo.

Trump, nel suo incontro con Ramaphosa, ha cercato platealmente di ribaltare questa narrazione: trasformare il Sudafrica da accusatore a presunto colpevole, insinuando che a essere “sterminati” sarebbero i bianchi. Un cortocircuito retorico che cerca di colpire l’immagine internazionale del presidente sudafricano e al tempo stesso proteggere Netanyahu, sempre più isolato diplomaticamente per l’ecatombe a Gaza.

Una risposta elegante e ferma

Ramaphosa ha scelto di non cedere alla provocazione. Con ironia, ha commentato: «Mi dispiace, Mr. President, ma non ho un aereo da regalarle», alludendo al jet che pochi giorni fa il Qatar ha donato a Trump. Poi ha aggiunto: «Se cerca uno spettacolo, io non faccio parte del cast». Parole misurate, ma nette. Ramaphosa non ha accettato di diventare l’ennesimo protagonista involontario di un format politico che trasforma lo Studio Ovale in un reality show.

Già con Zelensky, Trump aveva ridotto l’incontro con un capo di Stato in un’umiliazione pubblica, forzando la mano su una narrazione utile alla propria agenda elettorale. Oggi tocca a Ramaphosa: accusarlo di razzismo, insinuare instabilità, deviare l’attenzione dai crimini di guerra compiuti da Israele a Gaza.

Una diplomazia svuotata, un rischio globale

In questa cornice, la battuta sull’aereo non è solo un sarcasmo elegante, ma il segnale di una resistenza politica. Resistenza all’asservimento mediatico e all’infantilizzazione dei rapporti tra Stati. Ramaphosa ha portato in dono un libro fotografico sul Sudafrica, simbolo di cultura e identità. Trump, in cambio, ha offerto lo sguardo distorto di un’ideologia che cerca nemici ovunque e che, pur di difendere Netanyahu, non esita a riscrivere la realtà.

Il messaggio è chiaro: chi sfida la narrativa dominante viene colpito. E il Sudafrica, oggi, paga il prezzo del suo coraggio. Ma lo fa con dignità, e questo lo rende ancora più pericoloso per chi ha fatto del potere una macchina di manipolazione.