La storia di Siska De Ruysscher, la giovane belga che ha chiesto l’eutanasia dopo tredici anni di depressione e decine di tentativi di suicidio, è un grido silenzioso che attraversa l’Europa. Non parla solo del fallimento di un sistema sanitario, ma di un dramma più profondo: la perdita del senso della vita nei giovani, sempre più soli, stanchi e invisibili.
Una generazione fragile, ma non perduta
Siska non è un caso isolato. È il volto di una generazione che si sente schiacciata dal peso di aspettative irraggiungibili e di un mondo che corre troppo veloce. Cresciuti tra l’ansia di “dover riuscire” e il silenzio delle relazioni autentiche, molti giovani si scoprono senza respiro prima ancora di iniziare a vivere davvero.
Dietro la depressione giovanile, che oggi in Europa raggiunge numeri allarmanti, c’è spesso un vuoto affettivo, un isolamento emotivo che la società tende a riempire con prestazioni, stimoli e connessioni digitali. Ma ciò che manca — e che nessun algoritmo potrà mai offrire — è l’esperienza di sentirsi accolti, amati non per ciò che si produce, ma per ciò che si è.
Siska, la voce di chi non viene ascoltato
La vicenda di Siska denuncia una doppia ferita. Quella personale, di una ragazza segnata dal bullismo e dal dolore fin dall’infanzia, e quella collettiva, di un sistema incapace di prendersi cura. “Sono il prodotto di un sistema fallito”, ha detto prima di morire. Una frase che pesa come una sentenza.
È inaccettabile che, in una società avanzata, chi soffre di malattie mentali debba attendere mesi per un aiuto o venga trattato come un peso. La sua richiesta di eutanasia non è una rivendicazione ideologica, ma il segno di una disperazione che nessuno ha saputo abbracciare.
La fede come sguardo che salva
Siska non ha trovato chi le restituisse uno sguardo capace di dire: “Tu vali più del tuo dolore”.
Eppure, è proprio questo lo sguardo che salva, che la Chiesa e la comunità cristiana sono chiamate a offrire.
Papa Francesco, in un recente discorso ai giovani, ha detto: “La vita non è una prestazione, ma un dono. Anche quando non la capisci, resta un dono da custodire insieme.”
La sfida è accompagnare, non giudicare; restare accanto, anche quando la notte è lunga. La fede non cancella la sofferenza, ma la attraversa con la forza silenziosa della compassione.
Ricostruire un senso insieme
Aiutare i giovani depressi non significa moltiplicare protocolli o psicofarmaci, ma ricostruire legami.
Serve una comunità che ascolta, che non ha paura del dolore, che riapre spazi di gratuità e di presenza. La scuola, la famiglia, le parrocchie, i centri giovanili devono tornare a essere luoghi dove è possibile fallire senza essere esclusi, parlare senza essere giudicati, vivere senza dover dimostrare.
Siska, nel suo ultimo gesto, ha chiesto che la sua storia servisse a cambiare qualcosa.
Il suo dolore non può restare un fatto di cronaca: è una domanda rivolta a tutti noi.
La speranza come forma di resistenza
Ogni volta che un giovane sceglie la vita, anche solo per un giorno in più, è una vittoria della speranza.
Non possiamo promettere una vita senza dolore, ma possiamo costruire una società che non lasci solo chi soffre.
Il cristiano non giudica chi cede, ma si inginocchia accanto, per dire che la vita — anche ferita, anche fragile — resta un mistero sacro da amare, non da interrompere.
Siska voleva che la sua voce non fosse dimenticata. Sta a noi farla diventare un impegno: perché nessun giovane debba più chiedere di morire per sentirsi finalmente ascoltato.
