Un anno fa la Siria ha assistito alla fuga di Bashar al Assad e all’ascesa fulminea di Ahmad al-Shaara, ex comandante jihadista di Idlib diventato nuovo presidente con l’appoggio di potenze regionali e dell’Occidente. Allora si parlò di “liberazione” e di rinascita nazionale; oggi, alla vigilia del primo “Liberation Day”, il Paese appare invece più diviso, inquieto e fragile che mai.
È una fotografia amara quella che arriva oggi dalla Siria, a dodici mesi dalla fuga di Bashar al Assad e dalla presa del potere di Ahmad al-Shaara. Il 29 novembre scorso, sulla scalinata della Cittadella di Aleppo, il nuovo presidente parlava come un restauratore di speranze: «Aleppo sta rinascendo, e con lei tutta la Siria». Ma le parole, pronunciate come un inno alla rinascita nazionale, oggi risuonano stanche, quasi fuori tempo. La domenica del “Liberation Day”, che domani riempirà piazza degli Omayyadi a Damasco, non avrà il sapore dell’entusiasmo ma quello di un rito che non convince più nessuno.
Un anno fa quella stessa piazza esplodeva di gioia. Oggi molti preferiranno restare a casa. La rivoluzione del “nuovo corso” ha consumato troppo in fretta il suo credito, logorata da presenze ingombranti e da un clima che assomiglia più al sospetto che alla liberazione. I damasceni hanno un’espressione per descriverlo: «le facce nuove di Idlib». Giovani in divisa nera, i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham, arrivati nella capitale dopo la folgorante avanzata di dodici giorni dalle montagne ribelli. Oggi presidiano incroci, dirigono il traffico, controllano i quartieri. Segno inequivocabile che lo “spoil system” del nuovo potere non ha lasciato superstiti: i vertici militari alauiti e buona parte dell’apparato burocratico sono stati sostituiti con uomini fedeli al presidente e alle milizie sunnite alleate.
Intanto la riabilitazione internazionale di al-Shaara procede spedita. La sua visita alla Casa Bianca, lo scorso 10 novembre, è stata interpretata come la definitiva certificazione del nuovo ruolo del regime — nonostante l’imbarazzo di un’uscita laterale e una pacca sulla spalla che sapeva più di realpolitik che di endorsement. Ma se all’esterno il nuovo presidente appare il partner utile dell’Occidente, all’interno la Siria è un mosaico di fratture.
Le promesse di riforme tardano ad arrivare, mentre le tensioni intercomunitarie si moltiplicano. A marzo Latakia ha contato più di 1.400 vittime negli scontri tra governativi e comunità alauite. A luglio è stato il turno delle tribù beduine sunnite e dei drusi, travolti da un’escalation di violenza documentata in diretta sui social: esecuzioni sommarie, saccheggi, sfollamenti di massa. Due settimane fa, la fiammata più recente: una guerriglia urbana nei quartieri alauiti di Homs, scatenata per la ritorsione all’omicidio di una coppia della tribù Bani Khalid. La risposta alauita non si è fatta attendere, con manifestazioni di protesta diffuse in tutto il Paese.
Di fronte a questo scenario, al-Shaara ha iniziato a moltiplicare gli appelli all’unità nazionale. Ha persino definito «legittime» alcune richieste provenienti da Latakia, città madre del vecchio clan Assad. Ma ha anche tracciato un limite invalicabile: nessuna autonomia per la regione costiera, perché «una Siria senza accesso al mare perderebbe la sua forza strategica». Sono parole che raccontano la fragilità del momento: un presidente che cerca di placare gli animi ma non può permettersi di cedere su ciò che resta del nucleo geopolitico del Paese.
Il processo farsa contro sette miliziani governativi e sette alauiti, messo in scena a Damasco, non ha convinto nessuno. Un tentativo di dimostrare equidistanza, più che un segnale reale di ritorno alla legalità. Intanto riemergono fosse comuni, dossier sulle sparizioni e materiali che documentano la brutalità del vecchio regime. Il timore, mormorato a bassa voce, è che la giustizia selettiva del passato possa essere semplicemente passata di mano.
E poi ci sono le altre due Syrie, quelle che nessuno può ignorare: il Rojava curdo nel Nord-Est, ricco di petrolio e sostenuto dalle Forze democratiche; e il Golan, occupato da Israele, diventato oggi una piattaforma strategica per contenere Hezbollah e colpire obiettivi sensibili. Su questo scacchiere si muovono attori regionali e globali: gli Stati Uniti, che sostengono il nuovo corso; l’Arabia Saudita, sponsor politico e finanziario; la Russia, che non ha alcuna intenzione di rinunciare alle basi di Tartus, mentre si parla con insistenza di nuovi consiglieri militari americani in arrivo.
Il futuro della Siria si gioca qui, in questo triangolo esplosivo. È il “giardino del Medio Oriente”, come molti lo definiscono, un luogo dove ogni attore esterno coltiva interessi propri e arruola milizie per consolidare zone di influenza. Dietro l’apparente stabilizzazione, il rischio è quello di un Paese che cambia bandiera ma non logiche.
Tutti attendono un gesto decisivo dagli Stati Uniti: la revoca delle sanzioni. Senza quell’atto, la ricostruzione — un affare da 216 miliardi secondo la Banca Mondiale — resterà ferma. Senza ricostruzione, resteranno ferme anche le speranze di milioni di siriani. Lo sanno bene gli imprenditori italiani già tornati a Damasco in cerca di contatti, e lo sa il governo di al-Shaara, che ha appena creato un fondo sovrano per attrarre investimenti.
Il primo dicembre è tornata in edicola al-Thawra al-Souriya, il primo quotidiano stampato dopo cinque anni. È un segnale di normalità. Ma la nomina del nuovo Parlamento — con collegi riservati a soli seimila notabili — è passata nel disinteresse più totale. Le “vere elezioni”, ha detto al-Shaara, arriveranno solo tra cinque anni, a revisione costituzionale conclusa.
Cinque anni: un’era intera per un Paese che da mezzo secolo misura il tempo in guerre, rivolte, speranze lacerate.
Un anno dopo la grande festa, a Damasco la musica si è spenta. E il futuro, ancora una volta, resta sospeso.
